LE MANS ’66 – LA GRANDE SFIDA (FORD C FERRARI, U.S.A, 2019) di James Mangold, con Matt Damon, Christian Bale, Jon Bernthal, Caitriona Balfe, Tracy Letts, Josh Lucas, Noah Jupe, Remo Girone, Ray McKinnon, JJ Field. Biografico azione. ***
Se il titolo italiano preferisco contestualizzare il racconto in uno specifico orizzonte già di per sé abbastanza evocativo, è nel titolo originale che possiamo individuare la natura del film di James Mangold, autore eclettico e sfuggente che ci ha abituato a un cinema che, ripensando se stesso e i generi (action, western, biopic musicale, cinecomic), produce narrazioni in grado di porsi non di rado quali allegorie di un’intera nazione.
Ford V Ferrari, insomma, ha un cuore che batte seguendo il ritmo dell’epica americana con tutte le sue conseguenze – per chi scrive piuttosto esaltanti benché (o forse soprattutto per questo) sempre sul filo della retorica – essendo la storia vera di come la casa automobilistica d’oltreoceano riuscì a sconfiggere il cavallino rampante in una delle corse più spericolate di sempre. Il tema non è solo incardinato nell’autocelebrazione della forza di volontà americana ma tocca anche altre due sfere.
La prima è la sfida, che ha a che fare sia con la tensione agonistica di un popolo abituato a gareggiare per vincere sia attraverso la dimostrazione di potenza di uomini che domano macchine da loro stessi forgiate per essere le migliori al mondo e al contempo del capitale e dei suoi sacerdoti (Henry Ford per quanto II è comunque un nome che vale un sistema) che investe cifre folli per garantire al popolo (e a se stessi) la gloria della vittoria.
La seconda è l’orgoglio: lo scatto della storia, infatti, è in un rifiuto. Enzo Ferrari che nega al magnate Ford la scuderia italiana. Insomma, come osa quel villano italiano rifiutare tutti i soldi che sto mettendo sul tavolo? Vendetta! E come vendicarsi meglio se non mostrando al vecchio quanto la Ford possa fare a meno del genio artigianale italiano? Quale migliore occasione di Le Mans, luogo di un lungo dominio della Rossa, per spodestarla e far vedere chi comanda?
Ecco, fin qui siamo in un’ottica industriale (e politica) che si riflette nell’avventura e tutta questa parte è indispensabile per capire l’altra. Che è appaltata al carisma divistico di Matt Damon e Christian Bale, con il primo un filo meglio del secondo se non altro perché forse ancora in attesa di una reale “considerazione”. Se Bale, infatti, adatta il consueto investimento corporale (e un vago sentore di overacting) in un pilota ferito a morte e alla ricerca di riscatto, Damon, nel ruolo del visionario designer, usa la propria immagine classica per costruire un personaggio nel crinale tra la fierezza nervosa di Paul Newman e la solidità morale di James Stewart.
Sebbene la durata quasi monstre di due ore e mazza (troppe!) non sia proprio funzionale alla pur attenta costruzione del mito, Mangold ha la saggezza di non caricare il film su due attori che riesce a addomesticare con attenzione e cavalca con completa padronanza dei mezzi l’apparato tecnico rendendolo forse il vero protagonista. Le Mans ’66 diventa, così, un’esperienza estetica fondata sulla velocità rappresentata dal montaggio adrenalinico e dalla musica fatta di rombi di tuono e sgommate temerarie. Emozionarsi è lecito; sospettarlo di eccesso di calcolo nel procurare palpiti, pure.