Recensione: Ritratto della giovane in fiamme

RITRATTO DELLA GIOVANE IN FIAMME (PORTRAIT DE LA JEUNE FILLE EN FEU, Francia, 2019) di Céline Sciamma, con Noémie Merlant, Adèle Haenel, Valeria Golino, Luàna Bajrami. Mélo. ***

C’è più cervello che cuore, in questo Ritratto della giovane in fiamme il cui titolo viene declamato in apertura, nominato dalla pittrice eccezionalmente modella. È un dipinto che ha deciso di relegare all’oblio, riesumato per un errore d’ingenuità da chi ne riconosce la qualità estetica e l’emozione oltre la pennellata. Lo vediamo solo in quel momento: più che seguire l’intenzione della pittrice che lo vorrebbe chiuso in cantina, assecondiamo il flusso della sua memoria.

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Ritratto è il racconto di quel Ritratto. Una donna che sta per prendere fuoco in una spiaggia, con la luce della notte calante che filtra tra le nubi minacciose. È la donna per la quale vale la pena vivere e morire, soggetto suo malgrado di un quadro destinato al futuro marito. La donna del rimpianto perenne amata dai poeti che hanno preferito il dolore di una creatività furibonda. La donna dal volto irrappresentabile, sfuggente a tutti coloro incapaci di penetrare oltre l’enigma di un sorriso invisibile.

È la storia di un amore impossibile. Cinque giorni che valgono una vita, lontano dagli occhi di chi non sa, non può capire le conseguenze del desiderio. Specialmente dentro un’epoca che impone alle donne un ruolo preciso nella società: mogli devote con pargoli da crescere anche se non voluti, vedove inconsolabili nel lutto senza fine, spettatrici ansimanti di spettacoli che sono uniche vie di fuga.

Le due donne del film sono ribelli nella misura in cui abitano il loro breve amore in fieri nel perimetro limitato di un luogo altro: una ventosa e desolata landa britannica in cui gli uomini sono di passaggio e le donne officiano il rito della vita e della morte come in una tribù a parte, siano esse appartenenti a una triste nobiltà autocastratasi per l’illusione di non soffrire o a comunità ancestrali abituate a ragionare con l’istinto della ragione.

Nella parentesi di un paradiso ingannevole, Orfeo prende per mano Euridice e si volta all’estremo. L’amore è un’apparizione, quasi un tableau vivant dominato da un angelo in abito da sposa. L’amore è uno specchio che copre il sesso ma su cui rimbalza l’altra da sé. L’amore è un ritratto, un autoritratto, una pagina, un numero. Baci rubati perché negati dall’ordine costituito, ribellione attraverso la politica dei corpi ma chiusa nella casa, senza possibilità di essere davvero rivelata.

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Se è vero che a esplodere è la densità pittorica di questo film squisitamente “artistico”, ciò che forse manca un po’ nel pur centrato lavoro di Céline Sciamma è il ritmo languido con cui carbura il melodramma. La costruzione della tensione sessuale parte dai silenzi in interni, dai quadri celati alla modella inconsapevole, dalle onde che s’infrangono su un mare sinonimo di morte. Si vorrebbe che allo studio e al pensiero corrispondano i palpiti anche irrazionali del cuore in affanno, come accade nell’ultima sequenza, interessante equilibrio tra strazio ed erotismo.

Così, questo film così rotondo nella sua dimensione molto ragionata, che finisce per abbagliare gli occhi per la sua sfolgorante qualità estetica (spettacolare la fotografia di Claire Mathon ma note anche ai perfetti costumi di Dorothée Guiraud e alla pittrice Hélène Delmaire, mano effettiva delle opere in scena), lo si vorrebbe più sfrontato (che non vuol dire mettere un dolce neonato durante un aborto, ecco) nel catturare le emozioni dello spettatore più disponibile a lasciarsi dilaniare da una storia tanto struggente.

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