LA DEA FORTUNA (Italia, 2019) di Ferzan Ozpetek, con Stefano Accorsi, Edoardo Leo, Jasmine Trinca, Sara Ciocca, Edoardo Brandi, Serra Yilmaz, Barbara Alberti, Filippo Nigro, Pia Lanciotti, Cristina Bugatty, Dora Romano, Barbara Chichiarelli, Carmine Recano, Loredana Cannata, Matteo Martari, Edoardo Purgatori. Commedia mélo. **
È un cinema indubbiamente “d’autore”, quello di Ferzan Ozpetek, riconoscibile nei modi e negli spazi e coerente con una certa idea di mondo che comunica da ormai un ventennio. Benché il regista turco-romano non abbia bisogno di patentini che ne avvalorino lo statuto, la sua opera è così divisiva da far intravedere una delle caratteristiche proprie del cinema d’autore: il conflitto tra chi lo ama e chi lo detesta, tra chi vuole perdersi nell’abbraccio di un amico e chi è stanco di ritrovarsi sempre tra le stesse quattro mura.
Checché se ne dica, non fa sempre “lo stesso film”, perché la questione mi sembra più sofisticata: Ozpetek fa sempre “lo stesso tipo di film”. Le marche tipiche del suo cinema sono diventate dei cliché (il ballo di gruppo su musiche turche, la religione della convivialità gastronomica, la famiglia degli amici…), la prevedibilità di certi schemi ha depotenziato la forza di un universo raccontato con empatia e aderenza, l’equilibrio tra commedia e mélo appare sbilanciato laddove l’una arriva in soccorso dell’altro quando perde di fuoco o di compattezza.
Ciò che raramente si sottolinea di Ozpetek è la tendenza alla reticenza come chiave fondamentale per accedere a un mondo. L’autore non ama spiegare, rifugge l’approccio didascalico, preferisce suggerire e lasciare allo spettatore lo spazio per costruire il proprio film dentro il film. È una caratteristica che in La dea fortuna raggiunge un punto di non-ritorno: quel che “non si dice” è indicato col dito da ciò che “si vede”; e viceversa quel che è reso visibile vorrebbe ambire a suggerire qualcosa che non si dice.
Quando è particolarmente in partita, Ozpetek si muove bene nella faglia dell’allusione. Lo spettrale noir-mélo Napoli velata – che alla lunga, pur sbalestrato, è davvero opus interessante e radicale – si edificava proprio nella zona in cui si confondono le due dimensioni. Ma, come gli è capitato anche in film non proprio esaltanti (il rapporto tra Carla Signoris ed Elena Sofia Ricci in Allacciate le cinture, per esempio), sembra che l’allusione sia una scorciatoia narrativa per corrispondere alla solita formula senza pensare troppo al risultato.
Non è una lista della spesa, ma davvero appaiono evidenti molte perplessità. Ne cito due. Il coro degli amici con cui condividere ritualità domestiche non sconta tanto il ricalco delle migliori occasioni (Le fate ignoranti, Saturno contro: e questa Ostiense è un’oasi un po’ troppo felice) ma la fragilità sfocata di caratteri imprigionati nella trappola della figurina (il feticcio Serra Yilmaz, Cristina Bugatty sacerdotessa del culto di Mina) o nella teoria (Filippo Nigro, unico maschio etero, con la memoria a breve termine, che s’innamora ogni giorno della moglie Pia Lanciotti). E, lo dico, il solito ottimo direttore d’attori qui si vede poco.
La prediletta componente fantasmagorica (Cuore sacro, Magnifica presenza, Napoli velata), annunciata dall’incipit quasi spaventoso nell’alludere a violenze malcelate, ricompare come un obolo da pagare alla chiusura di troppi cerchi, in una deriva horror-camp (qualche dubbio sulla scelta ardita di Barbara Alberti) che Ozpetek – specie nel frettoloso finale a tratti grottesco – non sa del tutto gestire nel dosare stregoneria aristocratica e segreti inconfessabili, presunte pulsioni omoerotiche e goffe epifanie thriller.
Al solito sospeso tra amore e malattia, La dea fortuna ha sin dal titolo un tipico riferimento del suo autore a un mondo in cui il fato è qualcosa di imponderabile ma in grado di determinare in modo positivo le nostre vite. La metafora funziona perché facile, ma ne emerge spesso la pretestuosità, quasi che Ozpetek e i suoi sceneggiatori (Silvia Ranfagni e il fedele Gianni Romoli) abbiano bisogno di una cornice magico-irrazionale per garantire la credibilità del film e i comportamenti dei personaggi.
In realtà, quel che funziona davvero del film è la cosa più banale: il rapporto di coppia. Crediamo a questa coppia in crisi, meno alla disinvoltura con cui si tradiscono en plein air e un attimo dopo si maledicono perché un conto è una scopata e un conto è dichiararsi amore eterno. Crediamo – qua sì – ai non-detti del rapporto con Jasmine Trinca, messaggero d’amore e angelo della fertilità, forse lei stessa incarnazione della dea fortuna. E crediamo al rapporto che Stefano Accorsi e Edoardo Leo instaurano con i due bambini, senza ricorrere al film a tesi che un po’ Ozpetek rincorre per definire il suo concetto di famiglia.
E se Accorsi sceglie la controparte più antipatica, disegnando con finezza un disincantato e superbo frustrato, a Leo (alla miglior prova della carriera perché inattesa) spetta il personaggio più umano e ricco. Folgorato da questo macho gentile, lo sguardo di Ozpetek si scopre follemente innamorato di un uomo del popolo (idraulico) che segue le leggi del cuore e non perde di vista l’orgoglio. Il pezzo più bello e sincero, forse perfino commovente, di La dea fortuna è quando si porta a lavoro il piccolo Edoardo Brandi (si chiamano entrambi Alessandro… e Edoardo).
Ciao Lorenzo. Ho amato anch’io Alessandro che si porta al lavoro il piccolo Sandro, per non parlare del loro rapporto speciale e di Sandro che spacca il lavandino della nonna per richiamare quel momento felice, per far tornare Alessandro. Ho scritto un articolo su questo particolare 🙂 se ti va di leggerlo!
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