Recensione: Hammamet

HAMMAMET (Italia, 2020) di Gianni Amelio, con Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Renato Carpentieri, Omero Antonutti, Claudia Gerini, Roberto De Francesco, Federico Bergamaschi. Drammatico. ***

Pensando alla Sant’Elena dell’esilio per eccellenza e rimpiangendo l’utopia di Caprera. Il re è caduto e guarda da lontano la patria perduta: la penisola. Ogni uomo è un’isola? L’eroe è tale nella misura in cui cerca di aggiungere vita ai giorni e non giorni alla vita. Parla – o vorrebbe parlare – e si muove con un antieroe hollywoodiano, in una villa che è in tutto e per tutto sarcofago, cimitero, riserva, scena del crimine alla Viale del tramonto (e la Hollywood classica dilaga in frammenti e suggestioni). Nel crinale tra sopravvivenza e post mortem, tra un evanescente ricordo infantile e un nitido incubo senile.

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A dispetto dell’esattezza geografica, Hammamet è il non-luogo della Repubblica, l’immagine tangibile dell’oblio: il Presidente, sulla cui testa pendono pesanti condanne, è confinato nello spazio bianco del limbo tunisino, presidiato da militari e talvolta punto di ritrovo di amici italiani. Osserva il divenire, studia il già noto, si cala nella parte della vittima del sistema e immola il proprio corpo minato dal diabete alla causa estrema del sacrificio politico.

Se in Hammamet manca quasi del tutto una riflessione che non sia legata dell’autodifesa del colpevole (di cosa? Della fine di un partito, di un sistema, di un certo modo di pensare la politica nel bene e nel male), con inserti in aspect ratio che dovrebbero essere le sole esplicite citazioni dell’originale, la cosa che più funziona è la storia del corpo in disfacimento, prestato da un gigantesco Pierfrancesco Favino, impressionante per impegno mimetico, che come un vampiro succhia l’anima, la gestualità, lo sguardo di Craxi.

Già, perché, malgrado non sia mai nominato, quell’uomo con la gamba in cancrena (Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba…) e quella faccia lì è proprio Craxi. Capiamo bene che il fantoccio – come tale viene ridotto in un finale tra la psichiatria bellocchiana e l’onirismo soffocante dell’ultimo Fellini davvero inatteso – sia un espediente utile per aggiornare lo schema della tragedia classica in cui i personaggi sono stilizzati in funzioni: il Presidente, la Moglie, l’Ospite e come unici battezzati la figlia Anita (garibaldina) e Fausto (ricordando Colpire al cuore), il figlio del compagno socialista suicida.

Tuttavia, il vero problema è l’approccio sostanzialmente ambiguo – per non usare il termine più efficace: paraculo – con cui Gianni Amelio sceglie di coniugare il desiderio di una narrazione svincolata dalla contingenza cronachistica all’adozione di una maschera che è in tutto e per tutto biografica. Se da una parte il regista e lo sceneggiatore Alberto Taraglio rincorrono l’allegoria con Nicola Piovani acutissimo nel destrutturare L’Internazionale, dall’altra Favino procede spedito e trionfale nel suo personale biopic.

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Da questa programmatica e del tutto intonata conflittualità, Hammamet tratta l’universo Craxi come l’acqua che scompare nel e dal pavimento, come una pietra lanciata con la fionda che infrange il vetro della cronaca per entrare nella reinvenzione. Lancia la pietra e nasconde la mano, potremmo dire, quasi a trovare una motivazione alla sparizione dell’inadeguato Luca Filippi, contraltare giovane creato ex novo per mettere il Presidente di fronte all’evidenza dei propri limiti. Quando se ne va, in un momento simil Foxtrot, è una liberazione.

C’è uno scatto attorno a questo passaggio, un battito d’ali che porta Amelio fuori dalla gabbia di uno spazio meno rigido: dalla Pasqua in poi, dopo che il canzoniere italiano viene in soccorso per puntellare il chiacchiericcio di chi fa finta di niente e le reticenze di un clan decaduto. Da qui il film si fa più libero, ritrovando la stessa lungimiranza dell’incipit del congresso, dove Giuseppe Cederna (la faccia più sessantottina del giovane cinema di trent’anni fa) incarnava con rara sensibilità il senso di una fine imminente.

Quando ormai la fine è già finita, quando insomma Renato Carpentieri, splendido tutto di bianco vestito (il gioco del “chi è chi?” funziona fino a un certo punto), arriva ad Hammamet, il film trova la sua dimensione migliore: un dialogo elegante e perfido, un batti e ribatti che sa racchiudere la motivazione dell’operazione stessa nell’apertura poetica, nella sfuggente impossibilità di sistemare le cose se non nell’ordine della discussione, nell’imporre il vero, grande tema di Hammamet.

«T’hann’ scuorda’!» dice il democristiano Carpentieri, in quel supremo napoletano che nell’indolenza trasmette la potenza. Hammamet è un film sulla facoltà attiva dell’oblio: l’indisponibilità del Presidente a tornare in Italia non è (sol)tanto legata alla certezza di un arresto considerato ingiusto, quanto piuttosto alla volontà di rivendicare la propria presenza nel dibattito pubblico attraverso l’assenza. Il convitato di pietra che, da lontano, ricorda a tutti che della propria morte in diretta sono responsabili tutti.

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Ma quel «t’hann’ scuorda’!» nasconde un «ti hanno già dimenticato»: dimenticato dagli ex amici che oggi discutono in tv di guerre senza un’idea di politica estera (gustoso il passaggio in cui cerca da mangiare dopo aver sentito una fiacca dichiarazione di Berlusconi su Milosevic), dimenticato da una nazione che ha seppellito l’avventura governativa sotto le monetine del Raphael, dimenticato da una famiglia che sembra solo aspettare la morte di un uomo troppo ingombrante.

Il cuore di Hammamet è il dramma di un uomo che fa di tutto per non essere dimenticato; e muore quando capisce di essere solo un pupazzo, una mummia, un simulacro, una barzelletta, un brutto ricordo. A un certo punto Favino/Craxi/Presidente cita perfino Aldo Moro: «vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo». Carpentieri/DC: «se c’è Dio sarò l’ultimo a saperlo». Ah, fosse stato tutto così, che film sarebbe stato.

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