BOMBSHELL – LA VOCE DELLO SCANDALO (BOMBSHELL, U.S.A., 2019) di Jay Roach, con Charlize Theron, Nicole Kidman, Margot Robbie, John Lithgow, Allison Janney, Alice Eve, Kate McKinnon, Connie Britton, Mark Duplass, Rob Delaney, Malcolm McDowell, Brooke Smith. Biografico drammatico. **
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I premi, lo sappiamo, lasciano il tempo che trovano ma nemmeno tanto, detto che un’operazione come Bombshell – perché anzitutto di operazione si tratta – nasce con l’ambizione non velata di raccattare premi o comunque candidature per portare avanti il Tema, il Grande Tema degli ultimi anni hollywoodiani (soprattutto attorno e fuori rispetto alla narrazione cinematografica): gli abusi sessuali da parte di uomini potenti nei confronti di donne costrette al silenzio perché ricattate, umiliate, silenziate, annullate.
Tutto lodevole, se non fosse che l’unico riconoscimento davvero importante raccolto dal film è un Oscar per il trucco e il parrucco. E non è un dato da sottovalutare, dacché il grosso del lavoro è sul grande John Lithgow, che presta il volto e il corpo a Roger Ailes, magnate della Fox accusato di molestie da moltissime dipendenti del network. Va da sé che il trucco prosetico rende Ailes una maschera deforme, un obeso squallido e ributtante, portando la rappresentazione del personaggio un po’ oltre quella proposta da Russell Crowe nella serie The Loudest Voice, sullo stesso argomento.
A partire proprio dalla costruzione fisica della figura di Ailes, Bombshell rivela da subito un vuoto d’aria: un mostro – nell’accezione quasi da commedia all’italiana verrebbe da dire – a cui non riusciamo a credere, nonostante l’interpretazione di Lithgow, proprio in virtù di quelle protesi posticce che acuiscono i tratti perfino fumettistici. Procedimento che funzionava in Vice, per esempio, perché del tutto immerso in una dimensione grottesca in cui lo stesso trucco e parrucco era in funzione del tono del film stesso.
Qui, invece, il corpo di Ailes appare discordante rispetto al compitino elaborato da Jay Roach, un regista discontinuo ma lineare che da almeno un decennio studia gli intrecci tra politica americana e commedia interiore di una nazione che riduce tutto a supremo entertainment o lezione di moralismo. In Bombshell, Roach si lascia trascinare dalla seconda tendenza, preferendo la restituzione di fatti noti senza la minima intenzione di ripensarli in un’ottica che non sia una comoda e ammiccante adesione al conformismo.
Che, attenzione, non vuol dire patteggiare per il mostro. Vuol dire andare in profondità senza restare coinvolti in trappoloni come la colpevolizzazione della vittima o la semplificazione degli eventi. E vuol dire anche dosare i tempi con un ritmo che sia perlomeno accattivante e non una imitazione del documentario (voci fuori campo, personaggi che si rivolgono al pubblico, camera a mano) con improvvise virate da commedia incoerente. E Roach, lo sappiamo, sa padroneggiarla, come in quel Game Change sulla campagna McCain-Palin o addirittura nel serio Recount sui brogli dell’elezione di Bush.
E il problema sta nel cast, imbrigliato in personaggi ridotti a figurine da cronaca senza il peso della storia che vorrebbero incarnare, monodimensionali con l’eccezione della brava Margot Robbie, forse l’unica davvero in palla perché in grado di trasmettere il disagio di sentirsi “oggettivata”. Ed è un peccato che le versatili Charlize Theron e Nicole Kidman si limitino a riprodurre le originali con un surplus di coscienza da senno di poi. Qualcosa è andato storto, lo si percepisce chiaramente, e in questi termini Bombshell manca quella che avrebbe dovuto essere la sua principale ciambella di salvataggio: l’utilità.