TORNARE (Italia, 2019) di Cristina Comencini, con Giovanna Mezzogiorno, Vincenzo Amato, Barbara Ronchi, Beatrice Grannò, Clelia Rossi Marcello, Marco Valerio Montesano. Drammatico. **
Sostiene Cristina Comencini d’aver composto con Tornare partitura per un “thriller dell’anima”, recuperando un’espressione in voga un decennio orsono e oggi pressoché irricevibile. Sia perché un thriller degno d’esser tale è sempre anatomia dell’anima sia perché ne è scorsa d’acqua sotto i ponti dacché bastava tirare in mezzo l’indecifrabile anima per conferire senso, motivo o motore alle storie.
Più sobriamente (modestamente?), il Tornare di Comencini trattasi di flebile mélo innestato di elementi noir, percorso su piste labirintiche che incrociano il dramma identitario al crocevia dell’erotismo perturbante. Sulle tracce de La bestia nel cuore, tra i più fortunati dei film della regista – inopinatamente candidato all’Oscar: capitò anche questo! – ma che, diciamolo, conferma quanto la figlia di cotanta arte sia assai più a proprio agio con la commedia familiare (come dimostra Latin lover, opus migliore di carriera).
Eppure, forte della propria posizione di donna regista tra le più titolate del nostro cinema, Comencini continua a gettarsi nel dramma al femminile, finendo talora per risultare intrappolata in una gabbia che ne tarpa l’anima – eh sì – più consona (quella dedita al racconto buffo e malinconico di bizzarri ma attendibili nuclei familiare) se non incapace di comunicare con un pubblico che non sia quello femminile, urbano e borghese del quale è narratrice suprema.
Tornare – certo titolo peraltro moscio – entra nei meandri della mente della sua protagonista, Alice (come quella del Paese delle meraviglie: lo dicono, sì, lo dicono…), figlia di un militare americano di base a Napoli e di una donna partenopea tornata (appunto) nella città campana per il funerale del padre. È Giovanna Mezzogiorno (già nella Bestia), la cui presenza in questo tipo di film è quasi uno spoiler vivente: sempre brava, ma con quella vaga dimensione da typecasting che la rende vittima del personaggio, quasi impossibilitata a dare uno spessore che non sia l’aggiornamento di un cliché.
Tornata, insomma, nella casa natale, Alice/Mezzogiorno fa i conti con i ricordi che riaffiorano nella forma dei corpi della se stessa più giovane. In una fuga onirica che non ha alcuna differenza sostanziale con la supposta realtà, dialoga con la se stessa poco più che bambina e con la se stessa adolescente. Indagine e autoanalisi come specchio riflesso di un tormento contemporaneo che si scontra con un misterioso, giovane amico del padre.
Sorta di melodrammino che rima l’ambizione di un Volver senza colore con i segreti della Napoli velata riconfigurata dallo sguardo barocco di Ozpetek, il film – ambientato negli anni Novanta, ma accorgersene non è scontato – manca assurdamente del dolore necessario per costruire l’empatia dello spettatore e di una densità narrativa che dia profondità a temi risolti con troppa confusione e molta piattezza. Peccato perché certe inquadrature testimoniano un’indiscutibile cura formale (Alice e il militare ripresi dall’alto, figure smarrite nella fredda pietra; gli scorci simmetrici della casa vista mare), anche per merito della fotografia dell’ottima Daria D’Antonio (già dop di Ricordi?, quello sì struggente labirinto in una memoria destrutturata).