Recensione: Favolacce

FAVOLACCE (Italia-Svizzera, 2020) di Fabio e Damiano D’Innocenzo, con Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Max Malatesta, Gabriel Montesi, Ileana D’Ambra, Giulia Melillo, Lino Musella, Justin Korovkin, Tommaso Di Cola, Giulietta Rebeggiani. Drammatico. ****

Favolacce: Recensione, trama, cast e trailer del film

Sarebbe fin troppo facile mirare alla presunta costellazione che brilla nel cielo oscuro sotto i cui i fratelli D’Innocenzo – conta l’onomastica, conta il legame: una ditta, un sodalizio, un marchio – costruiscono quello che senza troppa retorica ci piace chiamare il nuovo cinema italiano. Eredi della (anti)tradizione dell’osceno per via pasoliniana di Sergio Citti, battitori paralleli nel campo di un malessere che ha il campione – orizzonte europeo – in Michael Haneke e il discendente autoproclamato nel più beffardo Yorgos Lanthimos, riflettori locali delle luci al neon che rifulgono per le strade di Nicolas Winding Refn…

Tutto vero, e così d’altronde piace a chi di un autore intende riconoscere la genealogia visibile agli occhi d’ognuno, ma quindi? A che pro? Come già dimostrato nel folgorante esordio La terra dell’abbastanza, i D’Innocenzo sono pionieri in una terra vergine, che – già era evidente nell’allestimento post-post-neorealista nonché post-post-moderno – è nitidamente quello spazio che qui appare tra il diorama da museo del crimine, il plastico da talk show, un libro pop up, il teatro di posa di un’inesauribile commedia umana.

Favolacce: già il titolo è una folgorazione. Le favole dei, per i, ai bambini; e quel suffisso, –acce: quello delle parolacce, delle fregnacce, delle storiacce. Roma, chiaro, che c’è e non c’è: periferia, villette uguali, disagi diversi. Famiglie modello solo nello specchio riflesse delle proprie convinzioni: amore latitante, rabbia repressa, vite vendute al dovere di apparire perfetti, sogni appaltati ai desideri minimi. Mondo chiuso, solo un cinema (un multiplex) come luogo dove (far) fuggire chi ha acceso la miccia di un reale inconcepibile.

Favolacce | I fratelli D'Innocenzo raccontano il loro film

Difficile parlare di Favolacce senza tradire il patto di fiducia con chi deve ancora scoprirlo. Storia labile a volerla stringere in un intreccio; e sceneggiatura incredibile per intuizioni, empatia, intelligenza emotiva. Un quartiere residenziale, casette dagli arredi senza personalità, famiglie che si ritrovano a cenare e discutono delle pagelline dei figli, un’estate lontana dalle vacanze. Si va al mare una volta, ma tanto vale comprare una piscina gonfiabile, cioè uno status.

E poi, un po’ più in là, padre scapestrato e figlio un po’ autistico, forse i corpi più estranei al teatrino di una borghesia ipotetica che di quel certo, di quell’atteggiamento, di quella mentalità ha mutuato l’ipocrisia e la ferocia. A vivere le favolacce sono i bambini più dei genitori: parlano poco e osservano molto con quegli occhi immensi e inquietanti che scrutano i conflitti repressi degli adulti, scoprono le cronologie porno nei cellulari dei padri, vengono tosati per paura dei pidocchi.

Ma quando parlano e si esprimono ecco che si rivelano spiazzanti, perfino inauditi a chi li ritiene estranei a tutto ciò che ruota attorno al sesso (cioè tutto?): i dialoghi sul primo rapporto da consumare quanto prima, «così poi abbiamo fatto tutto», la curiosità nei confronti della ragazza incinta e perduta, l’incontro per scambiarsi il morbillo e le precauzioni. Nessuno da tempo riusciva a raccontare l’universo infantile con tanta sconcertante umanità, con un affetto perfino stordente.

Lo dice la voce narrante di Max Tortora (incerta, vissuta, nasale: la sua figura la conosciamo tutti ma finisce per nascondersi ed immergersi in quella di un bambino che è tutti i bambini): è ispirato a una storia vera che è ispirato a una storia falsa che però non è molto ispirata. Si parte – e si arriva – a un servizio del telegiornale, la cronaca nera consumata senza la capacità di leggere l’umano oltre la sua rappresentazione mediatica. Tanto sono gli altri, sono sempre gli altri (che siamo noi).

Perché tutti dovrebbero guardare Favolacce

Di diretta filiazione garroniana (il set dialoga con quello di Reality, e infatti c’è di mezzo sempre Paolo Bonfini; la realtà è canovaccio per edificare immaginari), Favolacce monta la tensione senza lasciare un secondo di fiato, non cede un attimo ai vizi di un cinema spesso privo del fiato per urlare qualcosa di scandaloso, va avanti per la propria strada e crea qualcosa di sbalorditivo e clamoroso. Di cosa parla Favolacce? Dell’Italia familista e amorale, cannibale e chiusa in se stessa e sempre sul punto di esplodere; e di un’Italia che resta ipotesi di un mondo impossibile. Per il cinema italiano degli ultimi vent’anni praticamente quasi un capolavoro.

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