LACCI (Italia, 2020) di Daniele Luchetti, con Luigi Lo Cascio, Alba Rohrwacher, Silvio Orlando, Laura Morante, Giovanna Mezzogiorno, Adriano Giannini, Linda Caridi, Francesca De Sapio. Drammatico. *** ½
La sentenza è antica, eternata dal genio, rinnovata dalla vita che quotidianamente fluisce e ci viene addosso. Ogni famiglia è infelice a modo suo, diceva. È la regola di tutti i racconti, compreso Lacci, che come tutta l’opera di Domenico Starnone ti convince di essere dentro la commedia e all’improvviso ti sorprende con una coltellata, come se il dramma non fosse già così evidente. Passano gli anni e Starnone è sempre più teso all’essenziale, mettendo spudoratamente a nudo il corpo del maschio borghese della sua generazione, con un’empatia, una compassione, un’adesione pari solo al disprezzo di sé, all’onestà di rivelarsi egoista.
Lacci conferma un’altra antica teoria: il cinema si confà al racconto più che al romanzo. Benché quello di Starnone, insomma, più che un racconto è un romanzo breve: per respiro, struttura, ambizione. È la storia di un matrimonio, che passa attraverso gli occhi di lui ma accoglie, ospita, ingloba i punti di vista di tutte le parti in causa, in un sistema in tre atti fatto di lettere, monologhi, dialoghi…

Ecco, con Starnone convocato anche in sede di sceneggiatura, il punto è l’adattamento: forse Daniele Luchetti e Francesco Piccolo avrebbero potuto (dovuto?) tradire per attenuare il côté letterario, forse ci sono troppi maschi a raccontare il femminile, forse questo mettere in campo lo sguardo dell’uomo è un po’ troppo appaltato al rischio dell’autofiction del romanzo italiano medio (di cui Piccolo è rappresentante). Forse avrebbero potuto (dovuto?) slacciarsi un po’ per allacciarsi a qualcosa di meno ancorato allo schema della commedia drammatica borghese italiana.
E tuttavia, ecco, la scelta c’è: Lacci non è un film realista. Non è un adattamento letterario ma una letterale trascrizione per immagini. È una fantasia perversa, un incubo scontornato dall’onirico, un raccontarsi il racconto di un’intera vita. È la storia di Aldo e Vanda, che da subito intavolano il problema: c’è un’altra, forse non ti amo più. Si apre con un balletto in una festa a casa di amici, una danza meccanica per marionette: una cornice, un presagio, una parentesi che sembra annunciare il suo ancorarsi alla realtà e non al realismo.
La storia di un matrimonio, sì, e quindi di un tradimento, di confessioni e reticenze, scatole cinesi e scatole chiuse, piatti e librerie. Ma anche l’anatomia di un rapimento: «ti metto in prigione» dice Vanda, quando decide di combattere per qualcosa anzi qualcuno per cui forse, chissà, era meglio non credere. È la cronaca di un amore distrutto che si lancia nel vuoto di una casa piena di fantasmi: Napoli è mobile, Roma il rifugio di sogni individualisti. Film di case più che di città, che mutano, respingono e accolgono, infine s’arrendono.
Fallimento e rovina, gli occhi di un gatto che è forse l’unico a salvarsi. Tutti cercano di precipitare insieme affinché il dolore, l’infelicità, la certezza di aver investito in un desiderio sbagliato possano appartenere a tutti. Col tempo che passa i corpi si trasformano scegliendo l’autentico al posto del credibile, perché ci sono fiducia (nel racconto, nei volti discordanti che raccontano vite lacerate) e ferocia (empatia sì, affetto no). Si saltella il cerchio, la musica dirompe nella strada, i rumori della devastazione.

Il miglior Luchetti dall’incompreso Anni felici, di cui è una versione più allucinata, inquietante, meno immersiva perché mediata dall’esperienza altrui. Si procede per duetti, scontri, duelli: e se i protagonisti in ballo sono più di due ci può essere solo un silenzio ovattato. Pensateci: l’unica volta che si incontrano i vertici del triangolo non sentiamo una parola che sia una del litigio, chiusi insieme ai bambini nell’auto.
Qualcuno ha storto il naso per il cambio degli attori: essere disponibili all’immaginazione non è facile, pare. Nel trio (anzi quartetto) di coppie, maestosamente si ergono le fragilità nervose e laceranti di Silvio Orlando (per fisico e storia unico alter ego possibile di Starnone: tutto sottrazione, implosione, passività attiva) e Laura Morante (ma cosa sono quei rapidissimi sorrisi al contrario che svelano disagio, rabbia, paura del noto?) mai così grandi al cinema da troppo tempo. E Linda Caridi, la più salvifica, lucida, limpida dei personaggi, è una folgorazione assoluta.