THE FRENCH DISPATCH di Wes Anderson. ★★★
IN SALA. Per alcuni lo zenit di un autore, per altri l’apice del suo manierismo: forse stiamo nel mezzo. Mai come in questo film bulimico e funebre l’esteta Anderson spinge al limite la forma del racconto, frantumando la narrazione all’interno di un’antologia tenuta insieme dallo spirito di un giornale che si annida nel suo direttore. Intellettuale senza patria, Anderson coltiva e rinnova la nostalgia di un passato mai vissuto e solo rimpianto come conditio sine qua non per fuggire da un presente insoddisfacente e al contempo interpretarlo alla luce di quella mitologia esperita nella sua autorappresentazione, cioè la pubblicista. La rivista del titolo non esiste ma è la sintesi di un giornalismo che non esiste più: il bollettino del mondo da riportare agli americani allenati al Reader’s Digest, redatto da un gruppo di giornalisti cosmopolita e avventuroso, affabulatore e snob, romantico e autorevole. È un’orgia fané di cimeli e diorami, pastelli e mustacchi, capelli cotonati ed espressioni impassibili, nel rigore simmetrico di un’architettura visiva che è gabbia dorata e agile trappola. Cast sterminato, pieno di fedelissimi e newcomers. Volendo usare il bilancino degli episodi: succoso il primo (arte e mercato), derivativo il secondo (amore e Sessantotto), rocambolesco il terzo (polizia e cucina), più incipit curioso ed epilogo malinconico.

IL POTERE DEL CANE di Jane Campion. ★★★
IN SALA E POI IN STREAMING. Dal romanzo di Thomas Savage, si conferma l’antica regola che c’è sempre un western nella carriera di un grande regista. Con un’operazione che svela a tratti la sua dimensione programmatica, molto di pensiero e poco di pancia, Campion fa del western un laboratorio su teoria e pratica del genere americano per eccellenza: da una parte recupera il respiro di una visione panica senza sconfinare nell’estetizzante, dall’altra misura lo spazio all’altezza di un personale ripensamento di schemi culturali e personaggi archetipici. Campion smonta la mitologia maschile rivelando zone d’ombra, segreti occultati nella natura, l’ambiguità sessuale, la vulnerabilità nascosta sotto la coltre della brutalità. Sposta la linea temporale del genere negli anni Venti del Novecento collocando la storia su un orizzonte ancora più angosciante: mentre le città continuano il loro sviluppo, il ranch dei fratelli Burbank è una cattedrale nel deserto incompatibile col nuovo mondo. Fondato sulla costruzione del rapporto tra il bovaro Phil e Peter, figlio della moglie del fratello, il film ha un impatto visivo maggiore rispetto alla temperatura emotiva, con una struttura in sei capitoli che mutua la profondità romanzesca della fonte. Non sempre efficace l’equilibro tra classicismo e selvaggio, ricerca psicologica e graduale ebollizione, testa e carne.

ULTIMA NOTTE A SOHO di Edgar Wright. ★★★
IN SALA. L’operazione è raffinata e in un certo senso dialoga con quella di Anderson. Anche qui si convoca il passato e si sceglie come nume tutelare un mondo che, nei fatti, esiste solo nella nostalgia di chi l’ha esperita attraverso lo sguardo altrui. In quella che è a tutti gli effetti una seduta spiritica possibile solo sul grande schermo che trasforma i corpi in spettri, Wright celebra la Swinging London e il cinema che ha prodotto, ne esalta il mito eternato dal décor e dalla musica rivelandone il versante perturbante, l’illusione della spensieratezza, lo sdoppiamento che è in realtà frantumazione. In fuga dal presente, la protagonista imbocca la via onirica e si lascia risucchiare in un vortice che svela l’inquietudine di un tempo mitizzato: horror lussureggiante che ha come reference Powell, Hitchcock, Argento, Bava e Roeg, è la storia di un incubo a luci sparate che non dimentica di interrogare le questioni del presente (ruolo della donna, oggettivazione dei corpi ridotti a merce, oscurità della società dello spettacolo) e affascina pur non riuscendo a trovare sempre compattezza espressiva nel profluvio di citazioni, rimandi, allusioni, ammiccamenti. In primis la galleria di anziani testimoni del Free Cinema: Terence Stamp, Diana Rigg (ultima apparizione), Rita Tushingham, Margaret Nolan.

QUERIDO FIDEL di Viviana Calò. ★★★
IN SALA. Opera prima dal budget risicato, è una commedia umana stratificata, lunare e malinconica in piena sintonia con l’umore napoletano, anche per merito del protagonista Gianfelice Imparato. Attore antico e senza tempo, sembra nato per essere un attempato comunista che vive nel mito della rivoluzione cubana, osserva con scetticismo (eufemismo) la svolta di Gorbačëv e la transizione verso il Partito Democratico della Sinistra e, aspettando la rivoluzione, mantiene da anni un’assurda corrispondenza proprio con Castro, appellato come “estimado comandante”: quali sono i confini della realtà che questo bislacco signore del Novecento – un pazzariello – abita riponendo massima fiducia in un sogno che è già utopia? Storia di un’ossessione, di un amore che è già ricordo e cerca di rinnovarsi nella speranza di un futuro diverso, inquadra con affetto e precisione una radicata minoranza del popolo di sinistra a disagio in una società incompatibile con la rivoluzione. Il tono si accorda a una malia nostalgica, la stramberia cede il passo all’empatia, il tempo corre e accarezza i ricordi.

YARA di Marco Tullio Giordana. ★★
IN STREAMING. Ricostruzione dell’indagine condotta dalla PM Letizia Ruggeri per trovare l’assassino della tredicenne scomparsa nel 2010 a Brembate di Sopra. Com’è noto, la ricerca portò all’individuazione del cosiddetto Ignoto 1, poi identificato nel muratore Massimo Bossetti. Il focus è su Ruggeri, in difficoltà in una procura oppressa dalle ingerenze politiche (il bisogno del mostro a uso e consumo della propaganda) e dai conflitti tra i corpi (le rivalità tra polizia e carabinieri). Isabella Ragonese le dà corpo con risolutezza senza rinunciare alle vulnerabilità, caparbia ed empatica con la mamma di Yara e il film sceglie proprio di mettere in scena una madre alla ricerca della verità. È l’unica vibrazione dentro uno schema elementare, dalla ricostruzione paratattica e didascalica e senza guizzi, sulle orme di un modello ormai logoro di fiction didattica incardinata sulla “cronaca nera romanzata” e sul “legal drama civile” nello stile della Taodue di Pietro Valsecchi. Giordana è regista coerente e discontinuo, forse più agio con i grandi affreschi, e sa adottare un linguaggio chiaro nel rendere fruibile la macchina ma non riesce a dare tridimensionalità a personaggi ridotti a funzioni, passione all’inchiesta, profondità ai passaggi.

POST MORTEM di Péter Bergendy. ★★★
IN STREAMING. Nel tempo dalla pandemia si riflette sul tema del contagio, la paura della morte, la lotta per la sopravvivenza. C’è la febbre spagnola nella Prima guerra mondiale in un’Europa devastata in questo horror ungherese che si muove letteralmente al di là della vita. I veri protagonisti sono i cadaveri: un fotografo, sopravvissuto per miracolo, si occupa di ritratti mortuari, da restituire ai cari quale ultima (macabra) testimonianza di esistenze ormai concluse (ben vestiti, in pose “normali”, con gli occhi aperti). Atmosfera sinistra, senso di una minaccia opprimente, con i fantasmi nel limbo che infestano le visioni notturne del fotografo: come liberarsene? Horror denso e intimista che monta la tensione senza cercare lo spavento ma costeggiando l’angoscia, trova la quadra gestendo con equilibrio una fattura antica ed effetti speciali semplici: caratteristiche che lo scontornano dall’attuale per collocarsi nel novero di una tradizione rinnovata, al crocevia di un periodo storico decisivo (la pandemia che si confonde con la guerra, rendendosi quasi invisibile), il racconto folkloristico si fa contenitore delle tipiche suggestioni del genere. Il portato metaforico si rivela fin troppo evidente, ma la costruzione è sospesa e straniante rende il film cupo e affascinante.
