Ventiquattro ore nell’Hotel Ambassador: il vecchio ex portiere dell’albergo passa le sue giornate giocando a scacchi con un suo amico; il cameriere messicano soffre il razzismo ma trova un amico nell’imponente cuoco nero; il manager dell’hotel, sposato con una saggia parrucchiera, è amante di una giovane centralinista; una ragazza ha appena sposato un suo compagno di scuola per impedirgli di partire per il Vietnam; una cantante alcolizzata sul viale del tramonto sposata ad un inetto ex musicista; un’annoiata coppia borghese spende in scarpe e gioca a tennis; due ragazzi scoprono le gioie del LSD grazie ad uno spacciatore filosofo; il responsabile della cucina si sforza a non essere razzista; il capo della campagna elettorale di Bobby Kennedy confida molto nel popolo americano e nell’uomo che sostiene. Le loro aspettative e le loro speranze vengono uccise assieme a RFK.
Con un approccio molto altmaniano che inevitabilmente ricorda la campagna elettorale di Nashville, l’America liberal sfila negli interni dell’Ambassador, con tutte le sue disgrazie ed illusioni, visualizzandosi come l’ideale microcosmo per raccontare il contesto. Si tratta di un popolo colto nella sua complessa stratificazione sociale ed umana, in crisi d’identità e in attesa del cambiamento, non ancora ripresosi dall’attentato di Dallas e pronto a perdere del tutto l’ultimo brandello di innocenza.
Preso come alfiere della possibilità di cambiamento, il candidato Robert Kennedy è il simbolo dell’incipiente riscatto di una nazione turbata dalla guerra del Vietnam, dall’imminenza dalla stagione di Nixon, dallo sgretolamento di un privato che riflette i contraccolpi della storia collettiva. Qualcuno ha tirato in ballo i disaster movie degli anni settanta alla Inferno di cristallo: è uno sguardo pigro per scandagliare la vastità di un cast all stars, sicuramente troppo affollato ma in grado di comunicare una coralità problematica.
Estevez si rivela generoso amante della digressione e forse non sa del tutto gestire il traffico. Tuttavia il meglio si trova proprio nei singoli ritratti, nei frammenti di dolore: notevoli almeno il manager William H. Macy, Anthony Hopkins e Harry Belafonte in duetto senile, Demi Moore come cantante alcolizzata e Sharon Stone parrucchiera cornuta (da Oscar). Detestato in patria.
BOBBY (U.S.A., 2006) di Emilio Estevez, con Harry Belafonte, Nick Cannon, Emilio Estevez, Laurence Fishburne, Heather Graham, Anthony Hopkins, Helen Hunt, Joshua Jackson, Ashton Kutcher, Shia LeBeouf, Lindsay Lohan, William H. Macy, Demi Moore, Martin Sheen, Christian Slater, Sharon Stone, Mary Elizabeth Winstead, Elijah Wood. Drammatico. *** ½