TRE PIANI (Italia-Francia, 2020) di Nanni Moretti, con Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher, Elena Lietti, Adriano Giannini, Alessandro Sperduti, Denise Tantucci, Nanni Moretti, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Stefano Dionisi, Tommaso Ragno, Teco Celio, Irene Casagrande. Drammatico. ***
Mia madre, che di Tre piani ci sembra quasi un incipit o comunque una cesura che era preparazione a una nuova fase, era autofiction per mezzo di corpo altrui chiamata a elaborare in chiave personale un trauma di per sé universale. Film che arrivava dopo due profezie (Il caimano e Habemus Papam), fingeva di chiudersi in un un’apparente autoreferenzialità per aprirsi invece a un dialogo su un tema comprensibile a chiunque: la ricognizione del dolore.
Mia madre era su un lutto – così come La stanza del figlio, che era però su quello che forse è il lutto – che finiva con una speranza, indicava una promessa di futuro, apriva una strada alla vita. «A cosa pensi?», si sentiva in chiusura, tra i libri che significavano una vita votata all’educazione, alla costruzione di persone in fieri, alla trasmissione del sapere: «A domani», era la risposta.
Tre piani, invece, è attraversato da un continuo presagio di morte, con i libri, simbolo di un ceto e di un certo modo d’intendere l’abitare la vita, che nei pressi del finale si rivelano solo arredo da smaltire, ultimo pezzo da eliminare di case ormai infestate da fantasmi. Per la prima volta alle prese con un testo altrui (traccia di debolezza? Tentativo di risolvere un giro a vuoto?), Nanni Moretti prende e scarnifica il romanzo di Eshkol Nevo, ne prende i fatti e l’impalcatura teorica ma elimina l’apparato culturale strettamente legato all’originaria Israele per trasferire l’azione – o quel che resta – a Prati, quartiere della Roma bene borghese.

Strutturato nell’arco di dieci anni e tripartito (2010, 2015 e 2020), Tre piani convoca nel titolo quelli di un condominio ma anche gli strati dell’animo umano, cioè le istanze intrapsichiche freudiane di Es, Io e Super-Io. Al primo c’è la famiglia di Riccardo Scamarcio e Elena Lietti, che tendono a lasciare la figlioletta a casa dei dirimpettai, gli anziani Anna Bonaiuto e Paolo Graziosi. In seguito a un evento insolito, lui sospetta e si convince che la bambina sia stata oggetto di attenzioni disturbanti: il piano è quello degli istinti incontrollabili, quindi il destino della famiglia è legato alla gestione delle pulsioni primarie del capofamiglia.
Al secondo c’è Alba Rohrwacher, neomamma lasciata sola da Adriano Giannini, marito lontano per motivi di lavoro, convinta di avere il futuro già scritto perché la di lei madre è uscita di testa poco dopo la sua nascita. Nella solitudine di una casa troppo grande, comincia a vedere corvi minacciosi e forse qualcun altro. Al terzo risiedono i giudici Nanni Moretti e Margherita Buy, genitori che hanno impartito al figlio Alessandro Sperduti un’educazione rigida e severa, e che si ritroveranno frantumati di fronte a un evento inaspettato e traumatico.
Edificato con le co-sceneggiatrici Federica Pontremoli e Valia Santella su un pensiero geometrico fondato sul numero tre (tre piani, tre parti, famiglie condensate a tre elementi o quasi), Tre piani è un film che in superficie appare straniante e respingente, diretto non mettendosi accanto ai personaggi – come sosteneva la regista di Mia madre – ma sovrastandoli, finendo per alienare l’interpretazione dalla presenza, riducendo i corpi a macchine rispettivamente gestite – cannibalizzate – da istinto (Scamarcio è primordiale, rabbia e sesso), realtà (Rohrwacher vive il conflitto tra paura e desiderio) e imposizione (Moretti come un automa).
Tutto giocato in pochi metri, Tre piani è una storia che procede eliminando gli ingombri e accumulando orfani, sfondando muri e gettando abiti, che non sa prendersi carico della vita che verrà perché ancora imprigionata in corpi inamovibili. È l’esposizione di una terapia che nessuno intraprende per davvero, un lavoro che appare l’approdo di una lunga consuetudine con la psicanalisi e una svolta nel percorso di un autore che, in oltre quarant’anni, non ha mai rinunciato alla potenza del racconto e ha sempre scelto di affidarsi a un umanesimo di fondo che gli ha permesso di sviare la trappola del nichilismo.
Moretti mette in scena – perché la sua è letteralmente una messinscena, teatro borghese nella forma di una super soap, un’idea di regia precisa e spiazzante che scarnifica la retorica e fa sparire l’enfasi in favore perfino di un certo sprezzo del ridicolo – una umanità inabissata nei riti e nei miti del proprio ceto d’appartenenza, chiusa in un condominio che si immagina più grande del mondo esterno, rincorrendo restando ferma tutti i domani passati.

Forse il mistero risiede nella memoria conservata all’interno di un oggetto anacronistico, una segreteria telefonica che accoglie i messaggi di fuori e le voci di dentro. Il momento più bello di questo film afono e nero è quando il suo autore (l’uomo di cinema più importante d’Italia) si regala un’immagine di sé eccentrica rispetto alla caricatura dolente del personaggio che ha scelto di abitare, anche lui pezzo d’arredo di un universo prossimo alla sparizione. Moretti ci e si concede un sorriso malinconico sotto un paio di occhi lucidi, sperando di poter ancora pensare a quel domani che gli è precluso.
Un domani che però potrà vivere, in sua absentia, solo attraverso quella donna che abdicando alla simbiosi di una vita inciampata in un figlio mal amato, potrà finalmente rinascere tra i fiori mai colti: e Margherita Buy, raggio di luce che riverbera tra i danzatori clandestini, non solo è la colonna portante del film ma sa esprimere come nessun altro il senso del tempo che scorre senza distruggere ciò che resta ma costruendo quel che sarà. Ancora una volta è lei delegata a dirci a cosa stiamo pensando, oltre il termine di questo film così incompreso: a domani.