I magliari | Francesco Rosi (1959)

Progetto Sordi, le puntate precedenti:

  1. Gastone di Mario Bonnard (1960)
  2. Domenica è sempre domenica di Camillo Mastrocinque (1958)
  3. Io so che tu sai che io so di Alberto Sordi (1982)
  4. Il boom di Vittorio De Sica (1963)
  5. Le coppie di Mario Monicelli, Alberto Sordi, Vittorio De Sica (1970)
  6. Racconti d’estate di Gianni Franciolini (1958)
  7. Il diavolo di Gian Luigi Polidoro (1963)
  8. Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy (1971)
  9. Ladro lui, ladra lei di Luigi Zampa (1958)
  10. La vedova elettrica di Raymond Bernard (1958)
  11. Tutti a casa di Luigi Comencini (1960)
  12. I nostri mariti di Luigi Filippo D’Amico (1966)
  13. Piccola posta di Steno (1955)
  14. Nestore, l’ultima corsa di Alberto Sordi (1993)
  15. Crimen di Mario Camerini (1960)
  16. Accadde al commissariato di Giorgio Simonelli (1954)
  17. L’ingorgo di Luigi Comencini (1979)
  18. Il seduttore di Franco Rossi (1954)
  19. Il prof. dott. Guido Tersilli…, di Luciano Salce (1969)
  20. Venezia, la luna e tu di Dino Risi (1958)
  21. In viaggio con papà di Alberto Sordi (1982)
  22. Un eroe dei nostri tempi di Mario Monicelli (1955)
  23. Il conte Max di Giorgio Bianchi (1957)
  24. Le fate di Antonio Pietrangeli (1966)
  25. Mi permette, babbo! di Mario Bonnard (1956)
  26. I due nemici di Guy Hamitlon (1961)
  27. Mio figlio Nerone di Steno (1955)
  28. Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata di Luigi Zampa (1971)
  29. Il giudizio universale di Vittorio De Sica (1961)
  30. Lo sceicco bianco di Federico Fellini (1952)
  31. Finché c’è guerra c’è speranza di Alberto Sordi (1974)
  32. Totò e i re di Roma di Steno e Mario Monicelli (1952)
  33. Il disco volante di Tinto Brass (1964)
  34. La bella di Roma di Luigi Comencini (1955)

Caso nemmeno troppo raro di miopia critica, probabilmente I magliari è qualcosa in più di un film all’epoca sottovalutato e qualcosa in meno di un capolavoro inespresso. Oggi non è che sia stato del tutto rivalutato, anche perché all’interno della filmografia di Francesco Rosi finisce per essere eclissato dai più fondamentali Salvatore Giuliano e Le mani sulla città, per dirne due. D’altronde nessuno si aspettava dal folgorante esordiente La sfida un secondo lavoro di questo tipo.

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Girato in Germania, si concentra su un mondo a cui fino ad allora il cinema italiano non aveva prestato attenzione: i picareschi e avventurosi venditori meridionali che, in un paese straniero ostile se non proprio razzista, galleggiano praticando l’arte del raggiro, ballando nel crinale tra onestà e menzogna. È uno sguardo forse non nuovo ma perlomeno alternativo sull’immigrazione, che nel negare l’assunto degli “italiani brava gente” ne sottolinea tuttavia l’istinto di sopravvivenza di chi in qualche modo deve mettere insieme il pranzo con la cena.

Rosi si fa assistere in sede di sceneggiatura da Suso Cecchi D’Amico e Giuseppe Patroni Griffi – tutti e tre intrisi a loro modo di viscontismi nel senso di Luchino – e, in fin dei conti, il coraggio non lo dimostra tanto nella scelta di un tema perlomeno spinoso nell’Italietta che s’incammina verso il boom economico, quanto piuttosto nel tono: un dramma quasi noir che costeggia senza rincorrerlo l’umore della commedia all’italiana.

A dare la cifra di un film così insolito è naturalmente la presenza di Alberto Sordi. Straniante? Abbastanza, perché si tratta di una delle prime volte in cui il comico di punta del periodo è accolto nel dramma d’autore. Film dal valore di produzione altissimo, impreziosito dei contributi di quei collaboratori che hanno reso grande il cinema di Rosi (il direttore della fotografia Gianni Di Venanzo su tutti, qui straordinario nel dare densità alla luce che taglia le tenebre), proprio a causa di Sordi fu all’epoca trattato come una parodia grottesca, una specie di cover meno spiritosa de I soliti ignoti (beh, c’è sempre Suso di mezzo…).

Fermo restando che il capolavoro di Mario Monicelli è la pietra miliare che è esattamente perché commedia girata come un dramma e viceversa, Sordi non è la mina vagante dei Magliari, almeno nella misura in cui lo intendevano certi critici dell’epoca che ne condannavano la frivolezza. Al contrario: è il baricentro di un film che dimostra di aver compreso fino in fondo. Rosi cerca la tensione comica consapevole che solo così può costruire quella drammatica: solo rappresentando la suprema cialtroneria può dare forma al conflitto su cui si edifica uno dei suoi lavori formalmente più “americani” ma già dentro una ben precisa visione del cinema come strumento dialettico per seminare dubbi e coltivare riflessioni.

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Più della love story tra il qui più che mai viscontiano Renato Salvatori e la purtroppo prematuramente scomparsa Belinda Lee, incarnazione di una bellezza talmente dannata che pareva già provenire dall’oltretomba (conferma del famoso mantra secondo cui la bellezza o è conturbante o non è tale), è il cinico e miserabile Totonno di Sordi a trionfare alla lunga, circondato da un clan di caratteristi d’alta scuola partenopea che sembrano metterlo alla prova per capirne il grado felino. Poi, forse, una bella mano la danno pure i jazzismi di Piero Piccioni, compositore prediletto prima di Rosi e poi di Sordi.

Uscito nel settembre 1959, I magliari non viene spesso ricordato nel novero delle migliori performance sordiane. Sì tratta, tuttavia, non solo di un unicum spiazzante (l’autore par eccellente del cinema civile e il massimo colonnello della commedia all’italiana), ma anche di un pezzo del percorso di riposizionamento e maturazione di Sordi che, giunto all’apice, ha voglia di fare l’assalto al cielo portando la commedia (cioè lui stesso) nei posti più impensabili. Verranno le guerre, la polizia, la mafia.

I MAGLIARI (Italia-Francia 1959) di Francesco Rosi, con Renato Salvatori, Alberto Sordi, Belinda Lee, Nino Vingelli, Aldo Giuffrè, Aldo Bufi Landi. Drammatico commedia. *** ½

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