L’ingorgo | Luigi Comencini (1978)

Progetto Sordi, le puntate precedenti:

  1. Gastone di Mario Bonnard (1960)
  2. Domenica è sempre domenica di Camillo Mastrocinque (1958)
  3. Io so che tu sai che io so di Alberto Sordi (1982)
  4. Il boom di Vittorio De Sica (1963)
  5. Le coppie di Mario Monicelli, Alberto Sordi, Vittorio De Sica (1970)
  6. Racconti d’estate di Gianni Franciolini (1958)
  7. Il diavolo di Gian Luigi Polidoro (1963)
  8. Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy (1971)
  9. Ladro lui, ladra lei di Luigi Zampa (1958)
  10. La vedova elettrica di Raymond Bernard (1958)
  11. Tutti a casa di Luigi Comencini (1960)
  12. I nostri mariti di Luigi Filippo D’Amico (1966)
  13. Piccola posta di Steno (1955)
  14. Nestore, l’ultima corsa di Alberto Sordi (1993)
  15. Crimen di Mario Camerini (1960)
  16. Accadde al commissariato di Giorgio Simonelli (1954)

Non è un filone, quello del film distopico, che il cinema italiano affronta di frequente e comunque con una chiara definizione del confine di genere. In fondo, a pensarci bene, la cosa più simile per spirito a L’ingorgo sono il coevo Casotto di Sergio Citti e il più tardo L’ultimo capodanno di Marco Risi. Ma L’ingorgo arriva anche negli anni di Signore e signori, buonanotteUn borghese piccolo piccolo, I nuovi mostri, La terrazza, cioè della fine della commedia all’italiana: e di questa sono le – talvolta esplicite, certamente consapevoli – pietre tombali.

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Non è un caso che, dopo questo, Luigi Comencini passerà a Voltati Eugenio, per certi versi film grandissimo ma che guarda già altrove, riconnette il regista con l’antica predilezione per il mondo dell’infanzia, l’educazione, la formazione. Per lui e non solo per lui, L’ingorgo è quasi un unicum, in qualche modo una resa dei conti con un universo del quale è stato sì tra i massimi cantori con Mario Monicelli, Dino Risi e Ettore Scola ma sicuramente il più sfuggente e sensibile.

È già significativo osservare gli sceneggiatori che hanno qui collaborato con lui: da una parte, Ruggero Maccari, storico sodale di Scola, maestro della commedia di costume all’italiana; dall’altra, Bernardino Zapponi, che compagno di strada lo era di Federico Fellini. E se dalla matrica scoliana L’ingorgo ha quella dimensione corale che esploderà nelle geometrie dell’imminente Terrazza, dell’orizzonte felliniano c’è la ricostruzione di un mondo che accoglie la suggestione apocalittica.

Per raccontare quello che, come dice uno dei titoli alternativi, è un Black out in autostrada, Comencini, infatti, scelse di reinventare il ramo del Grande Raccordo Anulare a Cinecittà (scenografie di Mario Chiari), enfatizzando così l’alienazione, il distacco dalla realtà: guardate quel cielo assurdo pressoché dipinto, come se quell’ammasso di macchine incolonnate siano perse nel nulla cosmico di un mondo parallelo. E allora la fantascienza ipotetica serpeggia dentro una scatola tanto claustrofobica quanto priva di rassicuranti barriere.

Ispirato non dichiaratamente a un racconto di Julio Cortázar, L’ingorgo, non amato né del tutto compreso allepoca, è uno di quei film-ufo che compaiono al momento sbagliato per poi rivelarsi davvero col senno di poi, proprio in funzione di parafrasi, appendice, interpretazione di una realtà in quel momento indisponibile a rispecchiarsi in una tale angoscia. Siamo, d’altronde, all’indomani del delitto Moro e all’imbocco della stagione del riflusso, ovvero tra il massimo della tensione politico-sociale e il disimpegno come ideologia per uscire dalla crisi.

Comencini sente questi fermenti e, come intuiscono anche i suoi colleghi, capisce che ad accompagnare il pubblico nel trauma devono essere coloro che hanno garantito fino ad allora le risate. Sta qui, in fondo, il genio del casting di Alberto Sordi nel Borghese o Nino Manfredi in In nome del Papa Re, così come d’altronde il ribaltamento dell’icona da latin lover nel Marcello Mastroianni gay di Una giornata particolare, fino all’apice dell’uomo ridicolo Ugo Tognazzi per Bernardo Bertolucci.

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Programmaticamente allegorico finché si vuole, L’ingorgo è un incubo affollato di fantasmi, in cui i personaggi sono sul baratro tra vita e morte e cercano di sopravvivere dando perlopiù il peggio di se stessi. Tra tutti, è proprio Sordi a emergere in un cast eterogeneo dove si stagliano anche il bunueliano Fernando Rey e l’habitué Annie Girardot, il maledetto francese Patrick Dewaere e Ciccio Ingrassia in quelle sue puntate tragiche capaci di svelare tutta la sua grandezza.

Sordi interpreta il più ricco del catalogo, un imprenditore che si fa chiamare – guarda un po’ – “l’avvocato” e di cognome fa De Benedetti (quel Carlo nel ’78 diventava presidente della Olivetti…). Accompagnato da un servo in giacca e cravatta (Orazio Orlando), ha il cuore socialista e il portafogli a destra, è convinto di poter pagare tutto e beve champagne in macchina nell’attesa che un elicottero lo venga a salvare, inganna il prossimo, sfrutta i poveracci, illude i bisognosi. Personaggio ignobile, che naturalmente Sordi rende al meglio.

L’INGORGO (Italia, 1978) di Luigi Comencini, con Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Stefania Sandrelli, Fernando Rey, Annie Girardot, Patrick Dewaere, Gérard Depardieu, Orazio Orlando, Ciccio Ingrassia, Gianni Cavina, Miou-Miou, Angela Molina, Ester Carloni, Giovannella Grifeo, Nando Orfei, Ferdinando Murolo. Grottesco. *** ½

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