Occorre ribadirlo: Raffaele La Capria è uno dei più grandi scrittori del Novecento. Non è questa la sede per argomentare; il lettore meno avveduto vada in libreria o in biblioteca e prenda, senza timori né perplessità, una copia di Ferito a morte (1961), un romanzo fondamentale nella letteratura italiana dell’ultimo secolo. Il romanzo della Grande Occasione Mancata e della Cosa Temuta, della Bella Giornata e della Foresta Vergine – ma una celebrazione del romanziere La Capria, purtroppo, non ora, non qui.
Scrittore circolare e complesso, lucido e malinconico, aspro e limpido, legato alle radici napoletane e all’idea di una “armonia perduta” che condiziona la vita della città, affezionato ai luoghi e ai miti della giovinezza quanto teso all’analisi della contemporaneità, La Capria, dopo l’esordio nel 1952 con Un giorno d’impazienza, ha chiuso la sua stagione “romanzesca” nel 1973 con Amore e psiche, per poi dare vita ad una nuova, prolifica fase tra la saggistica e la narrativa dal 1986.
Nell’arco di vent’anni (’52-’73) la sua attività assai parca ha sollecitato da più parti l’idea di uno scrittore pigro, che d’altronde il diretto interessato non ha mai smentito benché nei termini di una tormentata insoddisfazione nei confronti dell’istituto del romanzo («Calvino, Parise, Pasolini, Moravia… loro lavoravano moltissimo e io intanto non facevo niente, perché pensavo che la letteratura non fosse tutto»).
Eppure questo periodo coincide con l’impegno di La Capria come sceneggiatore e l’inattività letteraria diventa così una “distrazione” che conferma la tendenza poetica e al contempo analitica di uno scrittore che ha bisogno della luce per scandagliare le oscure cose della vita. Per La Capria, il cinema è un’avventura da condividere con gli amici.

Con Francesco Rosi: il racconto omesso di un popolo dimenticato
Con il compagno di scuola Francesco Rosi scrive le sceneggiature di tre film. Le mani sulla città (1963) è sicuramente il più importante, un documentato ed impietoso atto d’accusa contro la speculazione edilizia, direttamente connesso alla polemica antilaurina di Ferito a morte.
Volti le spalle e già è nato un palazzo bruttissimo che opprime una strada, rovina il paesaggio, ti distrai un momento e altri dieci piani abusivi si aggiungono al grattacielo, insomma ti pare di stare nella giungla, le case nascono come la vegetazione tropicale a caso e senza una idea, e presto Napoli ne sarà sommersa. (Ferito a morte, nel Meridiano La Capria, pp. 294-295)
Quasi a voler espandere la dimensione saggistica del romanzo, La Capria collabora con Rosi in una prospettiva militante. Meno vincolato politicamente rispetto all’amico regista, il suo apporto è quello di un non-integrato che se n’è andato dalla città natia ma resta ancorato al suo cuore, il borghese che da Posillipo osserva lo squallore dell’abusivismo che disprezza l’umanità che abita il ventre di Napoli. In Ferito a morte, il protagonista torna da Roma e, dialogando con i genitori, capisce l’incidenza del sindaco Achille Lauro (quello che regalava agli elettori la scarpa destra prima del voto e la seconda dopo) nel tessuto cittadino.
Napoli è proprietà privata di appaltatori, esportatori e armatori, Lauro ha insegnato, ma oggi gli allievi hanno superato il maestro. Loro fanno gli affari, ottengono tutti i permessi, e noi le briciole. Nel palazzo stanno costruendo. L’ingegner Colella ha ricavato dall’ala che dà sulla banchina tanti piccoli appartamenti nuovi, di poche stanze. Da fuori non si vede niente, per ora Palazzo Medina sembra lo stesso. […] Devi vedere anche la Mostra d’Oltremare con le fontane luminose, sfumature bellissime, mauve, fraise, beige, ti dico un colpo d’occhio!… Un’altra idea di Lauro. Dite quello che volete, Napoli l’ha abbastanza ripulita, se vai al centro hai il senso che qualche cosa è stata fatta, e poi adesso il grattacielo di non so quanti piani, come a New York… […] e se vai a Capri devi prendere l’aliscafo, lo pigli a Margellina e in mezz’ora stai in piazzetta. […] La gente è sempre la stessa, anzi, se è possibile, sono peggiorati, che vuoi, oggi a Napoli quando fanno i soldi diventano lazzaroni, non li sanno portare i soldi, diventano volgari ed impossibili (Ferito a morte, pp. 296-299)
Le mani sulla città, caposaldo del cinema civile italiano, vince il Leone d’Oro a Venezia in un trionfo di contestazioni delle quali Rosi si è sempre giustamente vantato.
Tratto da Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile, C’era una volta (1967), sceneggiato assieme a Rosi e al poeta Tonino Guerra, rappresenta il tentativo di contaminare il remoto repertorio favolistico meridionale con le ambizioni internazionali di un prodotto d’esportazione (Sophia Loren ancora illuminata dall’Oscar e Omar Sharif post Zivago). Tuttavia l’interesse per Basile non è casuale e segna la passione per quell’antica plebe napoletana che parla il dialetto non ancora ripulito dal gusto della cultura e della civiltà dei ceti civili della città.
Nell’apprezzare la libertà di fantasia, di immagini, di parole, di situazioni, La Capria prova nostalgia ed invidia per una bizzarra narrazione allo stato nascente che si muove nelle terre verginali della realtà e della fantasia. Se consideriamo i lavori cinematografici organici allo studio dell’intero percorso dello scrittore, C’era una volta è uno dei primi esercizi sulla ricerca della cosiddetta “armonia perduta” di Napoli, un film irregolare delle e sulle radici che entra nell’immaginario collettivo della gente meridionale.
D’altro canto, è anche il grande incompreso della filmografia di Rosi, quasi un “rimosso” per l’inafferrabilità della sua autonomia, un porto franco o un caso isolato che solo uno studio pigro non è in grado di legare all’intero corpus del suo autore, sulla scia della fuga de Il momento della verità (1965). Per La Capria, invece, è una tappa che, per la stessa natura dell’oggetto filmico, si serve delle evocative e sfavillanti immagini che la letteratura può solo suggerire.
Pensandoci bene, anche Matteo Garrone, spesso molto affine a Rosi, ha incontrato più di una difficoltà nella rielaborazione del novelliere di Basile, sebbene Il racconto dei racconti (2015) sia molto distante alla gioia quasi folle del film di Rosi.
Altra riduzione letteraria con Rosi e Guerra, da Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, l’apologo antimilitarista Uomini contro (1970): è probabile che qui l’attenzione sia legata al destino del popolo di fronte all’assurdità della tragedia bellica e al rigoroso ridimensionamento del mito della Grande Guerra che era stato inaugurato undici anni prima con La grande guerra di Mario Monicelli.
La collaborazione prosegue negli anni settanta con Cristo si è fermato a Eboli (1979), un altro adattamento, questa volta dal memoir in esilio di Carlo Levi, che dimostra la scelta di occuparsi del racconto di un popolo omesso dalla narrazione: le vittime della speculazione, i sudditi di un regno perduto, i militari mandati al macello, un paese dimenticato da Dio. Nel 1992, Diario napoletano, documentario volto alla comprensione del mistero della città, chiude il lungo sodalizio professionale ma non quello personale.
Inoltre, La Capria può approfondire temi e filoni cari alla sua produzione letteraria: la decadenza partenopea, l’armonia perduta, la stupidità del male, la vacuità della borghesia. Il legame con Rosi consolida la convinzione secondo cui «ogni grande civiltà, e dunque anche quella napoletana, nasce da contrasti e contraddizioni apparentemente inconciliabili e stratificati nei secoli».
L’impossibile adattamento di Ferito a morte
Leoni al sole (1961), esordio dell’eclettico attore Vittorio Caprioli, è una emanazione di Ferito a morte («“nel romanzo io volevo contrastare il conformismo che ritroviamo nel film. Nel film trovi il conformismo de I vitelloni”»). A causa della sua particolare struttura, il romanzo appare intraducibile per il mezzo cinematografico. Quando Paolo Sorrentino ne scrisse una sceneggiatura, svela La Capria, «decidemmo insieme che non corrispondeva alle nostre intenzioni».
Per usare una tipica espressione lacapriana, è una falsa partenza, ma La grande bellezza pullula di evocazioni lacapriane ed è forse l’unico adattamento possibile di ciò che non viene detto in Ferito a morte. Così come pure L’uomo in più (2001), il debutto del regista napoletano. Il famoso e stupendo incipit del romanzo recita così:
La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come un aereo quando lo vedi sbucare ancora silenzioso nel cerchio tranquillo del mattino. L’occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese – è vicina, vicinissima, a tiro. La Grande Occasione. L’aletta dell’arpione fa da mirino sulla linea smagliante del fucile, lo sguardo segue un punto tra le branchie e le pinne dorsali. Sta per tirare – sarà più di dieci chili, attento, non si può sbagliare! – e la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona. Luccica lì, sul fondo di sabbia, la freccia inutile. La spigola passa lenta, come se lui non ci fosse, quasi potrebbe toccarla, e scompare in una zona d’ombra, nel buio degli scogli. Adesso sta inseguendo la Grande Occasione Mancata. Per lunghi corridoi sottomarini, ombre come alghe viola, e gelo in tutto il corpo. (Ferito a morte, p. 171)
Non c’è forse il principio de L’uomo in più in questo incipit? Non ci sono l’ossessione per la pesca subacquea, per la seduzione della morte, per quella malinconia che ti devasta come il proiettile di un fucile?
Leoni al sole recupera parzialmente il titolo originale del romanzo (Leoni di giugno) e, servendosi di appunti, dialoghi, episodi non utilizzati nel libro, racconta l’estate a Positano di alcuni giovani locali già attempati, che tentano di fuggire il male di vivere conquistando ragazzine o ricche signore, con la coscienza dell’imminente noia invernale.
Totalmente lacapriano per stile, motivi, temi, tono, è una memorabile commedia triste che accoglie simboli e caratteri di Ferito a morte (la pesca subacquea, i tuffi dagli scogli, i “personaggi eccezionali”, la spigola prima inseguita e poi bollita) e funziona da appendice o propaggine del libro. E vanta la splendida performance di Franca Valeri nel ritratto amaro di una quarantenne che si illude di scongelare il suo cuore in inverno.
Altre esperienze: da Giuseppe Patroni Griffi a Lina Wertmuller
A questo punto sono da evidenziare almeno due elementi: la carriera cinematografica di La Capria ha una dichiarata esigenza anzitutto economica per l’appetibile cachet garantito dalle sceneggiature; parallelamente, per lo scrittore, inattivo nel campo romanzesco, è l’occasione di proseguire un’argomentazione in un certo senso perfino sperimentale per la differente natura del medium e l’inevitabile confronto dialettico insito alla realizzazione di un film.
Inoltre, egli ammette come il lavoro cinematografico sia stato utile nel capire «l’importanza che, in qualsiasi opera, narrativa, cinematografica o teatrale, ha la solidità dell’impianto, della costruzione» e «l’importanza che conferisce alla buona costruzione e al ritmo, una buona motivazione delle varie azioni».
A parte i lavori con Luigi Comencini (il giallo Senza sapere niente di lei, 1969), Nelo Risi (Una stagione all’inferno, da Rimbaud, 1971) e Alberto Negrin (la trasposizione del bellissimo Una questione privata di Beppe Fenoglio, realizzata per la Rai nel 1991) La Capria collabora con l’amico di vecchia data Giuseppe Patroni Griffi, noto soprattutto per le commedie teatrali (la capitale Metti, una sera a cena del 1966).
Insieme realizzano Identikit (1974), stonato adattamento di un romanzo di Muriel Spark: la struttura disorientante e frantumata, fondata su flashback e percorsi mentali, e il montaggio dal ritmo sincopato sembrano comunicare con Amore e psiche, il terzo romanzo di La Capria che, per quanto involontariamente, fa percepire ancora di più quanto sia uno scrittore attirato dalle potenzialità del montaggio cinematografico.
Ultima sceneggiatura per il cinema è quella Ferdinando e Carolina (1999), diretto dall’amica Lina Wertmuller, con cui aveva già collaborato nell’adattamento televisivo della commedia di Eduardo De Filippo Sabato, domenica e lunedì (1990). Se la rievocazione giocosa del “re nasone” non convince nessuno, lo sceneggiato è invece uno dei lavori più felici della regista in cui La Capria trova l’occasione per innestare il suo sguardo empatico e complice attraverso un dialetto mitigato ma sincero.
Dieci libri per amare La Capria
- Ferito a morte (1961)
- Un giorno d’impazienza (1952)
- L’amorosa inchiesta (2006)
- Letteratura e salti mortali (1990)
- La neve del Vesuvio (1988)
- L’estro quotidiano (2006)
- Capri e non più Capri (1990)
- L’armonia perduta (1986)
- Amore e psiche (1973)
- False partenze (1974)