Venezia 76 | Recensione: The Painted Bird

THE PAINTED BIRD (NABARVENÉ PTÁČE, Repubblica Ceca-Slovacchia-Ucraina, 2019) di Václav Marhoul, con Petr Kotlár, Michael Doležalová, Zdenek Pecha, Udo Kier, Lech Dyblik, Jitka Cvacnarová, Stellan Skarsgard, Harvey Keitel, Julian Sands, Barry Pepper. Guerra drammatico. ***

Per proteggerlo dalle persecuzioni naziste, un bambino ebreo viene mandato dai genitori da una zia in una zona rurale dell’Europa dell’Est. È solo l’inizio della sua Odissea. Nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale, il bambino attraversa il male assoluto, testimone ma anzitutto vittima delle più aberranti violenze: sfruttato, sepolto a esclusione della testa beccata dai corvi, picchiato selvaggiamente, ingannato, stuprato (non solo lui: la terribile scena della bottiglia…), fino a diventare egli stesso autore di violenze efferate.

Dal romanzo di Jerzy Krosínski, un progetto che Václav Marhoul ha impiegato dieci anni per portarlo sul grande schermo. Ci è riuscito, con un budget consistente, scegliendo non solo un lancinante bianco e nero per definire il desolante orizzonte tragico e soprattutto l’interslavo, una lingua artificiale probabilmente adottata perché solo un idioma creato dall’uomo può essere utilizzato in una storia bestiale che nega l’umanità stessa.

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Quasi tre ore per argomentare un catalogo di disgrazie che in superficie solo un sadico può immaginare così accumulate, ma basta leggere le memorie dei testimoni per capire che non si tratta sempre di un’esagerazione. È una questione di sguardo, naturalmente, che Marhoul dimostra spudoratamente votato a colpire la pancia dello spettatore, anche quando spiega la metafora del titolo. Eppure, mettendo per un attimo da parte il bisogno di dare risposte a tutto, si instaura uno strano e scaltro legame empatico nei confronti di una storia che sì eccede in effettacci e ricatti morali ma al contempo impressiona per tenuta del racconto e senso dello spettacolo.

Poi, chiaro, se uno cerca la misura, il controllo, il rigore, la finezza, perfino il buon gusto è il caso che vada altrove per non incappare nella venatura splatter, nel sonoro disturbante, nel polpettone che pretende un monito di commozione pur di non farti sentire un arido pezzo di carne. Una specie di aggiornamento – estetismi compresi – che spinge all’estremo lo stesso mondo di Va’ e vedi: cercando una respingente sgradevolezza, tocca la sensibilità del grande pubblico.

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