Film manifesto della Novelle Vague, À boute de souffle è puro cinema cerebrale, molto intellettuale (forse troppo), che mira alto il suo ambizioso bersaglio: reinventare il cinema. La storia di questo ladruncolo che la fa grossa (uccide un uomo) e si innamora di una americana che alla fine lo consegnerà alla giustizia sarebbe anche esile, ma è quel che basta a Godard per esprimere la propria idea di avanguardia, assolutamente originale per quel momento storico.
Ad oggi, però, (ma forse anche ieri, chissà) la sua visione è difficoltosa sia per la dilatazione di alcuni frammenti (la sequenza nella camera d’albergo, per dire: il giochetto del «che significa?» regge fino ad un certo punto) e i suoi ottantasei minuti risultano alla fine densissimi, pieni, completi.
E anche l’intermezzo con lo scrittore greco (e qui si inizia a parlare di politica e cultura) in fin dei conti è pesantuccio ed influenza il resto di quest’opera originale e falsamente ingenua, ma certamente fondamentale per capire il corso mutevole dell’arte cinematografica dal 1960 in poi. Quanti adepti godardiani ne hanno seguito i gli stilemi – compreso il nostro Bernardo Bertolucci. Jean-Paul Belmondo, mischiando cinisco e tenerezza, spavalderia e smarrimento, disegna un bel personaggio di sinistro fascino: in fondo il film è un documentario su di lui.
FINO ALL’ULTIMO RESPIRO (À BOUT DE SOUFFLE, Francia, 1960) di Jean-Luc Godard, con Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg, Daniel Boulanger, Roger Hanin, Jean-Pierre Melville. Drammatico. *** ½