Recensione: Private Life

PRIVATE LIFE (U.S.A., 2018) di Tamara Jenkins, con Paul Giamatti, Kathryn Hahn, Kayli Carter, Molly Shannon, John Carroll Lynch, Desmin Borges, Denis O’Hare. Commedia drammatica. *** ½

disponibile su Netflix

Grazie alla distribuzione internazionale garantita da Netflix, Private Life ci permette di godere del ritorno di Tamara Jenkins a undici anni da La famiglia Savage. In fondo siamo sempre lì, tutto racchiuso nel titolo esplicativo, con la coerente adesione ad uno stile ben preciso che nell’arco di un decennio ha prosperato: il dramedy indie alla Sundance Festival con personaggi bo-bo (borghesia bohémien) alle prese con una crisi.

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Al centro, una coppia di teatranti quarantenni che cerca da tempo di avere un figlio. Jenkins entra senza esitazioni nel cuore della questione, avvistando i due in un ambulatorio medico e mettendo subito in chiaro il problema: il seme di lui non ha sperma, lei non può essere proseguire la fecondazione in vitro, il desiderio di una maternità pare essere nuovamente infranto da una realtà cinica e bara.

Mentre decidono faticosamente di rivolgersi ad un donatore, si trovano ad avere a che fare con la scapestrata nipote, che a venticinque anni non ancora finisce il college e vorrebbe vivere scrivendo come gli zii. Il tema dell’avere figli in quanto fertilità s’incrocia con l’affinità elettiva tra due generazioni: più che quella della parentela prossima, c’è una linea emotiva che lega zii e nipote, ben distante dalle convenzionali ritualità borghesi dei genitori della ragazza.

Jenkins pare conoscere molto bene i suoi due antieroi – quasi come se i protagonisti di American Life avessero trovato casa e, poiché giovani si diventa, fossero cresciuti negli spazi domestici dei Savage – e segue con attenzione empatica la loro avventura nella fertilità (i momenti medici danno il ritmo del racconto) con la coscienza di quanto l’impossibilità di avere figli sia la cartina di tornasole di una crisi che non è solo personale ma del ceto socio-culturale che rappresentano.

Quando, a cena da amici, assistono agli spettacolini dei figli abbiamo la misura di una generazione non ricca eppure senza particolari preoccupazioni economiche, contenta che i bambini abbiano una chissà quanto volontaria tendenza artistica ma in realtà desiderosi solo che vadano a letto presto per poter continuare le chiacchiere a tavola. Una maturità solo esteriore, determinata esclusivamente dall’aver fatto figli?

Jenkins osserva, non dà giudizi, si limita a raccontare lo smarrimento della cognata dei protagonisti che non accetta il progetto di vita della figlia non collimante con quello da lei previsto, un’isterica repressa (il taglio del pollo col coltello elettrico) che Molly Shannon trasmette con l’acuta freddezza degli spostati, tanto emergente quanto è invece conciliante e fortificato il marito John Carroll Lynch.

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La regista esprime un intimismo invernale e soffuso lungo una narrazione avvolta in un raro tepore, si prende i tempi per necessari per comunicare il senso di un quotidiano fondato sull’attesa dell’evento – praticamente nessuno lavora mai – a costo di dilatare la durata fino ad arrivare a due ore che accolgono tutto il malinconico dolore di una coppia impaziente di essere famiglia, ma che forse famiglia lo è già come si evince dal rapporto con la nipote e soprattutto dall’ultima, memorabile immagine al locale su cui scorrono i titoli di coda.

Senza mai dimenticare la leggerezza del tocco e l’intelligenza del cuore, Jenkins si avvale della magnifica resa dei suoi attori: tornato finalmente protagonista, Paul Giamatti è sublime nel dosare sconcerto e fatalismo, amarezza e vitalità in un personaggio sulla carta a forte rischio di essere uno stereotipo; e Kathryn Hahn si conferma presenza straordinaria nel cui corpo morbido e nervoso si concentra la tensione umorale delle combattenti stanche; Kayli Carter è folgorante.

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