Non è il primo film a cui si pensa in questo senso, eppure Harry e Tonto comprova quanto i premi, in fondo, abbiano una loro utilità. Non tanto perché garantiscono un riconoscimento sul momento in gloria dei vincitori, ma perché col senno di poi dimostrano da una parte i limiti di scelte oggi abbastanza discutibili (Com’era verde la mia valle che ha la meglio su Quarto potere, Elizabeth Taylor per Venere in visone e via dicendo) e dall’altra intelligenti o curiose selezioni di una specie di canone.
L’Oscar stesso lo dobbiamo recepire soprattutto come catalogo dei gusti dell’industria dei rispettivi momenti storici, anche quando si verificano vittorie non del tutto ovvie. Pensiamo a quando Art Carney, il protagonista di Harry e Tonto, trionfò sui più blasonati Dustin Hoffman, Jack Nicholson, Al Pacino e Albert Finney. Aver premiato Carney appare oggi più notevole di allora perché ha garantito una grande occasione ad un attore pressoché sconosciuto fuori dai confini americani.
Che grande scelta, peraltro: nei panni di un anziano ex insegnante che, dopo aver perso la casa (il palazzo deve essere abbattuto per far posto ad un parcheggio…), si mette in viaggio per cercare una nuova sistemazione presso i figli sparsi per il Paese, Carney, invecchiato ad arte, è immenso. Recita con un gatto non che gli fa solo da spalla ma proprio da propaggine o estensione fisica. Una coppia che aggiorna quella dell’indimenticabile Cupo tramonto, a cui questo film ripensa con ironica malinconia.
Commedia melodrammatica o melodramma comico, quello di Paul Mazursky – nome decisivo per la New Hollywood – è un road movie fatto essenzialmente di personaggi, in cui tutto ciò che accade è già accaduto perché appartiene al passato: ogni cosa corre sul filo della memoria di giorno in giorno meno limpida eppure sempre lancinante. Un film sulla vecchiaia che ripensa alla giovinezza, sul tempo che va e viene, sulla possibilità di un futuro nonostante tutto.
Non esiste futuro senza passato: le citazioni dantesche che si riferiscono al lavoro a scuola, la nostalgia della moglie scomparsa, l’ostinazione a restare dentro una casa che è destinata a non esistere più, il rapporto coi figli, l’incontro col nativo americano a cui è stata negata una patria violentemente usurpata, il momento nell’obitorio, la struggente sequenza dell’incontro con la vecchia fiamma affetta da demenza senile Gerladine Fitzgerald.
Nella seconda parte c’è la scoperta dello spazio sconfinato che avviene simultaneamente con l’esperienza dello stupore provata da Harry, un uomo che non è mai andato «ad ovest di Chicago». Nel solco del cinema dei nuovi autori, la smitizzazione dell’immaginario è l’opportunità per far sperimentare ad Harry la riconquista di una frontiera perduta, con l’obiettivo di rivivere o rinverdire un soffio di lontana giovinezza.
Il commovente finale apre le porte del cielo alla dolcezza di una speranza mai vana: tutto questo vagare è servito a trovare una nuova casa, nuovi amici, nuovi sguardi da incrociare per sperare. E il mare, ancora una volta, si conferma nel cinema americano, così geograficamente dispersivo e bisognoso di percorrere lunghe distanze per lasciar crescere i suoi personaggi, qualcosa di epifanico. Un capolavoro da riscoprire sempre.
HARRY E TONTO (HARRY AND TONTO, U.S.A., 1974) di Paul Mazursky, con Art Carney, Herbert Berghof, Ellen Burstyn, Geraldine Fitzgerald, Larry Hagman, Chief Dan George, Melanie Mayron. Commedia drammatico. *****