THE BURNT ORANGE HERESY (Italia-U.S.A., 2019) di Giuseppe Capotondi, con Claes Bang, Elizabeth Debicki, Mick Jagger, Donald Sutherland. Noir. **
James Figueras è un critico d’arte. Ne è in una certa misura lo stereotipo. Affascinante e incalzante, capace di piegare la realtà alle sue esigenze, bugiardo professionista per avvalorare le proprie tesi, addirittura pagato. Una figura fantasiosa, se non fossimo ai piani alti del jet set. A una conferenza (che dovrebbe essere una specie di introduzione teorica), conosce una bella ragazza americana, se la porta a letto e poi le offre un weekend sul lago di Como.
L’invito arriva da un ricchissimo collezionista americano, che intende usarlo per ottenere l’unico quadro di un pittore-eremita ospitato nella sua tenuta. Poiché l’opera dell’artista è stata, negli anni, perduta a causa di incendi devastanti, il collezionista chiede al critico di entrare nel suo studio per rubargli un quadro, così da diventare l’unica persona al mondo a possederne un esemplare. Come ricompensa, il critico potrà curare l’unica monografia del pittore.
Tratto da Il quadro eretico, classico neonoir di Charles Willeford, il secondo film di Giuseppe Capotondi (a distanza di dieci anni dal primo, La doppia ora: nel frattempo si è occupato di serialità televisiva) può essere letto in tre modi. Il primo è industriale: un thriller internazionale che cerca di installare l’impianto del libro in un contesto italiano pericolosamente a misura turistica, cercando di dare profondità a uno sfondo incantevole ma a uso e consumo dell’estasi dei villeggianti d’alto bordo.
Il secondo è una riflessione sul mestiere del critico, descritto qui come massimo sacerdote della menzogna, della reticenza, dell’opportunismo, professione-parassita scelta da coloro che devono accettare la mancanza di talento artistico e trovarsi un posto nel mondo commentando, ripensando, inventando le ragioni del talento altrui. E il mellifluo Claes Bang certo non contribuisce a costruire un’empatia col suo pur spregevole personaggio.
E il terzo è il ritorno del neoclassico, tra magioni lacustre che contengono segreti e spazi metropolitani abitati da cittadini facoltosi, con un occhio alle atmosfere hitchcockiane e un altro al ritmo delle narrazioni televisive. Purtroppo, al di là delle ambizioni e degli ingranaggi in barba alla credibilità, del film restano solo i gustosi e divertiti cammeoni di Mick Jagger e Donald Sutherland: l’uno incede tra i quadri col passo padrone della star che non deve chiedere permesso; l’altro gioca sornione tra monologhi a effetti e un look barbuto che instilla massicce dosi di carisma attorno al sorriso più ambiguo della storia.