Dopo un preludio psichedelico in cui la sperimentazione visiva ed espressionista si declina sui registri di un’indagine intrapresa alle origini dell’enigma, tra lanterne magiche dalle quali sembra provenire la storia e incubi mai dimenticati di un obitorio opprimente, Persona catalizza l’attenzione sulla ricerca del dialogo tra una loquace e ferita infermiera e una attrice votata al silenzio.
Fondato sulla contrapposizione e sull’amalgama tra i volti riflessi da luci d’inverno come in uno specchio tra i sussurri impercettibili di Liv Ullmann e le grida continue di Bibi Andersson, Bergman non vuole spiegare, ma semplicemente esporre: e nella sua concezione l’esposizione si dirige nell’espressione problematica della tesi bergmaniana.
Qui il tema è confuso, sfuggente, insinuante: e se apparentemente la vicenda delle due donne può sembrare ovviamente reale, la cornice nella quale si inserisce (dal prologo allucinogeno al finale ciclicamente scontato, dato il principio) appartiene al mondo etereo e scivoloso del sogno che non muore all’alba. Difficoltoso qua e là per la sua struttura enigmatica, si affida a due attrici che si sacrificano e si completano, alla ricerca di una sintesi comune, analizzando loro stesse.
Per niente lieto, inquieto quanto basta, è il manifesto del nuovo cinema bergmaniano, e raggiungerà un suo livello maggiore (per quel che riguarda la mia sensibilità cinematografica) con il successivo Sussurri e grida, altro film in cui le donne (verso cui l’autore ripone una fiducia condizionata) si confrontano con i fantasmi del loro passato (e del loro presente e futuro) senza speranza alcuna.
PERSONA (Svezia, 1966) di Ingmar Bergman, con Bibi Andersson, Liv Ullmann, Margaretha Krook, Gunnar Björnstrand. Drammatico. *** ½