Recensione: La vita invisibile di Eurídice Gusmão

LA VITA INVISIBILE DI EURÍDICE GUSMÃO (A VIDA INVISÍVEL DE EURÍDICE GUSMÃO, Brasile, 2019) di Karim Aïnouz, con Fernanda Montenegro, Carol Duarte, Julia Stockler, Gregório Duvivier, Flávia Gusmão, António Fonseca, Maria Manoella, Bárbara Santos. Mélo. *****

È nel termine “invisibile” che si rende visibile il dramma di Eurídice Gusmão. Vittima di una famiglia dominata da un padre feroce e una madre sottomessa. Vittima di un marito che più che non amarla non ne rispetta le passioni, i tempi, i pensieri. Vittima di una società, una cultura, una città. Invisibili sono i suoi desideri, le sue aspettative, i suoi sogni. Invisibile – in quanto non-visibile, nascosta, occultata – diventa agli occhi dell’amatissima sorella Guida, ripudiata dal padre perché rimasta gravida di un marinaio che l’ha abbandonata.

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Tratto dal bestseller di Marta Bathala, La vita invisibile di Eurídice Gusmão è la quintessenza del mélo. Anzitutto per la costruzione geometrica della regia di Karim Aïnouz – Douglas Sirk benedice e approva, Pedro Almodóvar si compiace – che dispone i corpi delle due donne in modo tale da trasmettere da una parte l’incomunicabilità e il distacco dai congiunti (Eurídice) e dall’altra la solitudine attraverso il primo piano alternato all’orizzontalità della piccola comunità-famiglia che la protegge (Guida).

Per i colori fiammeggianti della bruciante fotografia di Hélène Louvart (consueta collaboratrice di Alice Rohwracher). Per un montaggio che sa esprimere il senso del tempo: circa dieci anni – quelli compresi tra l’allontanamento di Guida e la parziale scoperta di Eurídice – raccontati mediante le due angolazioni, ognuna in attesa di un cenno dall’altra, entrambe vittime di un padre-padrone come mille altri e perciò tanto crudele quanto in fondo così piccolo, miserrimo, vigliacco da meritare solo disprezzo. Per gli sfioramenti strazianti nei bar (verrebbe da urlare «voltati!» come Nanni Moretti a Lara in Palombella Rossa), per il sesso consumato senza amore nei bagni, per gli specchi rivelatori, per le fiamme degli incendi inattesi.

E, soprattutto, per la scelta di una commovente dimensione epistolare – da sempre arma massima del mélo – che, nella direzione unilaterale del dialogo per voce sola, riesce a far convogliare il cuore romanzesco in una partitura di immagini e parole capace di dare corpo e anima alle parole. Lungo e mai faticoso, il film ha la statura narrativa, la ricchezza tematica, la consapevolezza estetica, la grandezza emozionale di un classico in grado di parlare a un pubblico che non è solo quello d’oggi: ma quello contemporaneo, dove col termine s’intende un eterno presente non ancora vissuto.

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La classicità (neo? Meglio non avventurarsi nell’utilizzo di etichette scivolose) di La vita invisibile risiede anche nella scelta di volti e corpi che per tratti, sguardi, colori appartengono a un tempo lontano dunque futuro, dalla tensione repressa dell’ubbidente, distinta e nervosa Carol Duarte (la giovane Eurídice) alla selvaggia sensualità mista a saggezza istintiva di Julia Stockler (la giovane Guida), passando per la femminilità antica di Bárbara Santos (l’amica Filomena, a cui è riservato uno dei momenti più struggenti) fino all’epifania della diva Fernanda Montenegro, che in una manciata di minuti s’impossessa del film, per via di un paio occhi stanchi, stupefatti, devastati che ci portano in una valle di lacrime.

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