MANIFESTO (Australia-Germania, 2015) di Julian Rosefeldt, con Cate Blanchett, Erika Bauer, Andrew Upton, Marie Borkowski Foedrowitz. Sperimentale. * ½
Un film bifido. Curioso, sì, definire così un film tanto pieno di cose. Eppure Manifesto è essenzialmente due cose: un qualcosa di audiovisivo – più un’installazione artistica proiettata in una sala cinematografica che un film canonico – e il regno di Cate Blanchett. Il manifesto che più ci interessa è quello che spiega la recitazione dell’attrice. Lo spiega mettendo in scena una se stessa moltiplicata per tredici, una personalità divisa in altrettante incarnazioni, un corpo che si presta alla rappresentazione di parole che hanno formato movimenti.
Cosa si può dire su Cate Blanchett più di quanto Cate Blanchett dica lei stessa raccontando in prima persona la sua avventura dentro i manifesti culturali, artistici, politici raccolti in Manifesto? Esiste un termine che possa rendere omaggio e giustizia alla clamorosa performance di un’attrice dal talento quasi insopportabile per perfezione, eclettismo, consapevolezza?
Insopportabile, ecco. Chi è al servizio di chi? È la prova di Blanchett ad essere in funzione del progetto di Julian Rosefeldt o viceversa? Naturale che un lavoro del genere sia ghiottissimo per una professionista del mimetismo. Ma è lei a reggere l’operazione o viceversa? In fondo, cosa regge Manifesto se non la sua estenuante concatenazione di monologhi esattamente riproposti e ripensati entro cornici alternative ma attendibili?
Mettiamo un attimo da parte Blanchett e troviamo il coraggio di dirlo: Manifesto è qualcosa di insostenibile, un atto di superbia intellettuale che nella sala cinematografica non trova lo spazio giusto per trasmettere ciò che vorrebbe. Non è solo una questione di luoghi (ma è un problema quanto mai contemporaneo): l’intenzione di rivolgersi ad un pubblico che possa anche essere digiuno di manifesti si scontra inesorabilmente con la coscienza che un lavoro di questo tipo possa essere davvero compreso da chi è cosciente di quei manifesti stessi.
Bifido, insomma, perché la grande e generosa prova d’attrice si presta ad un lavoro che di grande e generoso non ha nulla, respingente come pochi, rivolto ad un pubblico (quale?) disponibile alla conferma di quanto già conosce, pronto ad una fruizione alternativa allo schermo cinematografico e pensabile altrove, come d’altronde era in origine.