Il centenario di Fellini ci porta a ripensare una filmografia cristallizzata nel ricordo di ogni cinefilo, anche nelle pur accettabili tendenze a ridurla nell’ordine di immagini iconiche e mitiche allegorie. Così, tra una Gelsomina in disuso (diciamolo pure: La strada è il film che invecchia peggio) e un Marcello sempre nella memoria, tra sublimi scampagnate nel non-tempo riminese e atti poetici d’avanguardia, si stagliano forse le cose non tanto sottovalutate quanto un po’ date per scontato.
Certo, La dolce vita e 8 ½ sono pietre miliari indisponibili alla revisione di presuntuosi picconatori, ma di Fellini, oggi, amo in particolare l’incipit carnevalesco del dittico formato da Lo sceicco bianco e I vitelloni (per me il capolavoro supremo del maestro), gli incubi accecati dal colore e immersi nell’imperfezione (Le tentazioni del dottor Antonio, Giulietta degli spiriti, il pur difettoso Toby Dammit), i canti funebri al tempo perduto (Roma, Il Casanova, Ginger e Fred).
Tra la folle danza di morte del Casanova e il ripiegamento ossessivo nel sé adorabilmente misogino nella Città delle donne, Prova d’orchestra mi sembra un tourning point difficile da eludere, sentenza su e di un decennio cupo e perfino orrendo nel suo dipanarsi nella ferocia urbana, nel nichilismo, nel tramonto della politica. Ancor più sensazionale pensare che la committenza sia della Rai, che il mediometraggio (70 minuti) era un tv movie, che il kolossal claustrofobico accentui la propria natura soffocante anche grazie al piccolo schermo.
La visione di un paesaggio in decomposizione morale filtrata attraverso l’inquietante sguardo visionario di un artigiano riscopertosi intellettuale: tale è la prova d’orchestra metafora di un Paese dominato dalle divisioni, incapace di compattarsi, tiranneggiato da un potere incarnato in una sorta di incrocio tra un Mago di Oz e un Grande Vecchio. A Fellini, si sa, la realtà interessa solo nella misura in cui può tramutarsi in sogno. La cronaca collettiva è tale se è allucinazione personale e viceversa.
Una finta inchiesta – con la voce fuori campo di Fellini che abdica alla presenza fisica già introdotta in Roma per librarsi nell’aria come assenza materica e ostacolo evanescente – per sondare le zone d’ombra del narcisismo, setacciare il passaggio tra l’età di un illusorio benessere a quella di un nitido rancore, capire se è vero che diciamo un sacco di fregnacce o se è il pubblico a interpretare i nostri (presunti) rivoluzionari gesti artistici come ineluttabili fregnacce.
Forse la più completa e compiuta (sarà per la rapidità?) presa di posizione felliniana nell’orizzonte di un’allegoria tanto suggestiva quanto comprensibile (sarà per la destinazione televisiva?), Prova d’orchestra vive tuttora nella palla distruttiva simbolo dell’apocalisse imminente… e al contempo oggetto ordinatore del caos di una nazione che dovrebbe solo fare un po’ di silenzio (dieci anni dopo arriverà La voce della luna). Allegoria musicale, è il commiato di Nino Rota, praticamente co-regista.
PROVA D’ORCHESTRA (Italia-Germania Ovest, 1979) di Federico Fellini, con Balduin Baas, Clara Colosimo, Elisabeth Labi, Ronaldo Bonacchi, Ferdinando Villella, Giovanni Javarone, David Mauhsell. Grottesco. *** ½