35° Torino Film Festival | Recensione: A fábrica de nada

A FÁBRICA DE NADA (Portogallo, 2017) di Pedro Pinho, con Carla Galvão, Daniele Incalcaterra, Hermínio Amaro, Joaquim Bichana Martins, José Smith Vargas, Njamy Sebastião. Drammatico musical. *** ½

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Dopo aver scoperto lo smantellamento della fabbrica, la cui produzione i dirigenti hanno deciso di delocalizzare, un gruppo di lavoratori si organizza per resistere, pur dovendo fare a meno al lavoro vero e proprio. Di fronte alle deformità imposte dal capitalismo ai tempi della crisi, il proletariato si riunisce per autogestire il proprio destino, ponendosi al centro di un cambiamento che si articola secondo i codici del cinema.

A fábrica de nada, infatti, coglie la dimensione onirica della realtà mettendo i personaggi nelle condizioni di poterla sublimare nel musical: secondo la lezione della Hollywood classica, il genere permette di trasvolare il reale per collocare i suoi abitanti in una prospettiva che ne sottolinea la portata utopistica, l’evasione come significante di un disagio da risolvere solo in una fuga fantastica, una trazione verso il sogno.

Può sembrare straniante, ma è in effetti una scelta ideologicamente strepitosa: per rappresentare un dramma umano dettato dalla depressione economica e quindi industriale, Pedro Pinho recupera gli aspetti più eccitanti del concetto di finzione, spingendo quella che potrebbe apparire di primo acchito come una disperata corale che flirta col documentario in un’estensione ben più stratificata.

Innescando strategie molto raffinate pur nell’apparente essenzialità dello sguardo, celebra della collettività operaia l’afflato solidaristico esprimendolo con la coreografia che mette in scena un sentimento unitario, capendo quanto il cinema, attraverso i suoi segnali più identificativi (c’è un genere meno vincolato alla verità del musical?), può contribuire a scandagliare la cronaca non solo portoghese ma di un intero continente.

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Al di là del musical, il film, infatti, si staglia quale fondamentale saggio narrativo sulle condizioni della classe operaia d’inizio millennio, stritolata da un sistema incapace di assicurare la dignità del lavoro, idealizzata da una borghesia di sinistra che crede di conoscerla secondo un costrutto teorico affrancato dal sudore e delle ferite della carne, pressoché fuori dalla rappresentazione di un cinema – quello europeo – spesso reticente nel racconto dentro la fabbrica.

Con un certo sprezzo del pericolo, Pinho passa dalla commedia alla docufiction, setaccia il privato e si prende libertà abbastanza clamorose, racchiuse in una durata fluviale, vicina alle tre ore, nella quale si affastellano episodi, sensazioni, movimenti, riflessioni, azioni che corrispondono idealmente all’autogestione propugnata dai personaggi, organizzata dentro uno spazio con cui restaurare una relazione tra uomini e luoghi, primo elemento di un nuovo contratto sociale. Contro il padronato, viva il socialismo.

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