Recensione: Napoli velata

NAPOLI VELATA (Italia, 2017) di Ferzan Ozpetek, con Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Borghi, Anna Bonaiuto, Peppe Barra, Luisa Ranieri, Biagio Forestieri, Maria Pia Calzone, Lina Sastri, Isabella Ferrari, Maria Luisa Santella, Angela Pagano, Loredana Cannata, Carmine Recano. Mélo giallo. ** ½

Il cadavere di Alessandro Borghi giace sul lettino dell’anatomopatologo Giovanna Mezzogiorno, senza occhi. I suoi assassini gliel’hanno levati da vivo. D’altronde ce l’ha detto Anna Bonaiuto poco prima, mentre tira il sipario velato sul parto dei femminielli, l’antico rito apotropaico rimesso in scena nel salotto della sua grande casa altoborghese: «la gente non sopporta troppa verità». Se gli occhi sono gli strumenti per vederla, la verità, è dello sguardo il compito di capirla, anche a costo di negare l’evidenza di immagini che ci sembrano inequivocabili.

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Nella parte della zia della protagonista, Bonaiuto si abbandona in due monologhi che riflettono sul rapporto tra occhi e sguardo: nel primo, svela un segreto di famiglia restando sostanzialmente da sola nello schermo, mentre Ferzan Ozpetek la circonda con i suoi soliti carrelli circolari anche con voci che riemergono del passato prive di corpi; nel secondo, si rivolge a Napoli dando le spalle al pubblico. Il segreto in questione non sposta di troppo il nostro baricentro emotivo; a contare, tuttavia, non è il cosa, ma il come.

Staffetta tra passato e presente, la zia si cala in una sorta di estasi molto teatrale dove la casa è un palcoscenico pronto ad accogliere qualunque evenienza melodrammatica. Le voci che sente somigliano ai fantasmi della nipote, con la differenza che forse si è abituata a convivere con il rimorso di non essere stata all’altezza del proprio desiderio. Come il Cristo velato della Cappella Sansevero, che compare nel finale, i corpi di queste due donne sembrano essere costantemente avvolti in un velo di pietra che le separa dal mondo, intento ad osservarle per assistere alla loro rivelazione. Inoltre, sono colte in un dialogo-scontro con Napoli, che le pone di fronte alla scelta fatale tra la sfida e la dissolvenza.

E quindi Napoli. Lo sguardo di Ozpetek è folcloristico, nella concezione più nobile del termine. I suoi occhi sono inondati dal barocco, dalla decadenza, dall’armonia perduta di lacapriana memoria. Napoli c’è, con tutto il suo repertorio di bellezza devastata da se stessa, e affiora come mai nella voce materna di Peppe Barra, non a caso figura transitoria, sfuggente, fisica quanto destinata all’evanescenza. È attore-demirugo e cantastorie, un confidente speciale e una guida turistica nel sottobosco magico di una città in cui la superstizione è una religione, l’alchimia la scienza ufficiale e le fattucchiere sanno della vita più dei medici.

La visita alla moderna Sibilia mette proprio l’anatomopatologo al cospetto della potenza dell’irrazionale. Che sia Maria Luisa Santella non è un caso: nella sua voce incidentata, le parole si accartocciano e obbligano un ascolto attento e fiducioso, mentre il corpo smisurato sembra sprofondare nel letto. Assieme alla finale apparizione fantasmagorica di Angela Pagano – ma pure allo stesso Barra, Ozpetek impone un discorso dove le presenze improvvise e indelebili di queste vestali ancestrali si oppone all’aristocrazia scenografica dei palazzi scelti per l’azione della ghost story. Corpi importanti contro fantasmi, voci, assenze.

Con quel titolo suggestivo e programmatico, Napoli velata costruisce la sua tensione sul riempimento degli spazi vuoti con le angosce più perturbanti dell’inconscio. A suo modo, è un compendio del cinema di Ozpetek e Gianni Romoli (alla sceneggiatura ha collaborato anche Valia Santella, figlia di Maria Luisa), con il rapporto tra il materno e la morte già alla base di Cuore sacro e la loro straordinaria attenzione ai contraccolpi del tempo nella memoria rimossa da far riemergere per riaffrontare il presente con un altro sguardo. Nel film c’è molto di Romoli, che sin dai tempi di Sono un fenomeno paranormale esplora i lati più oscuri del fantasy, suggestionando forse lo stesso Ozpetek nelle sue esperienze extra (Magnifica presenza).

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Più d’ogni altra cosa, essendo fondato sul legame tra corpi (tangibili, spiritati, bramati, negati) e desiderio (riappropriarsi del passato, immaginare un futuro impossibile, scoprire ciò che non si riesce a scoprire), Napoli velata è un mélo spudorato e bulimico, pieno di così tanta roba non di rado superflua da risultare complicatissimo. Vorrebbe essere un qualcosa di strano a metà tra un trip lisergico dove la mia droga si chiama Andrea e un noir psicanalitico che esala sensualità sin dall’ormai celebre momento erotico dopo la festa iniziale.

Ambizioso a costo di sfiorare il ridicolo, Ozpetek, più esuberante e aggrovigliante che mai, cita tutto ciò che può, da Hitchcock a De Palma fino a De Sica e Rossellini, e soprattutto un humus partenopeo dominato più dall’evocazione di Patroni Griffi (come non ritrovarvi Persone naturali e strafottenti, In memoria di una signora amica, Scende giù per Toledo…?) che dai comunque indicativi questi fantasmi di Eduardo, giocando a carte talmente scoperte da solleticare solo l’orticaria della maggioranza dei critici.

Da queste parti, sarà per la struggente decadenza cittadina e la narrazione culturale a cui allude segretamente, intriga l’idea che i fantasmi abitino il labirinto mentale di una donna sul crinale tra raziocinio ed alienazione, complice la recitazione tutta in levare di una Mezzogiorno che continua a riscoprire la napoletanità dopo La tenerezza e a superare le barriere della Finestra di fronte.

In un film tutto dentro la dicotomia tra occhi (e un occhio è il cimelio che passa per quattro mani) e sguardo, è il suo volto limpido e straziato a costruire un legame empatico e sentimentale col pubblico, sentendosi a suo modo ella stessa partecipe di un’inconsapevole recita fin troppo immersiva. E qui la sua si rivela l’immagine meno compromessa con l’inganno scenico o nella vita, perché vittima di chi si cela dietro maschere, imitazioni, simulazioni, illusioni (praticamente tutti). Ma, in fondo, anche lei si cela dietro una maschera: quella della madre, il personaggio con cui Mezzogiorno esordisce nella prima scena, dopo il vortice elicoidale della scalinata di Palazzo Mannajuolo.

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